Lexis

Poetica, retorica e comunicazione nella tradizione classica

Journal | Lexis
Journal issue | Num. 42 (n.s.) – Dicembre 2024 – Fasc. 2
Research Article | In the Footsteps of Didymus: On the Subject of two Didymic Scolii to Euripides’ Medea and the Interpolation of a Memorable Verse

In the Footsteps of Didymus: On the Subject of two Didymic Scolii to Euripides’ Medea and the Interpolation of a Memorable Verse

Abstract

This paper aims at reconstructing Didymus’s opinion about the repetition of line 356a = 380 of Euripides’ Medea, and at the same time to discuss the authenticity of this repetition in the first episode (356a = 380) as well as in the prologue (l. 41). On one hand, it will be argued that Didymus considered l. 380 authentic whereas l. 356a interpolated by ancient actors and that l. 356a was at his time yet discontinuously attested; on the other hand, that ll. 41 and 356a were both interpolated in antiquity, possibly by different hands, due to the memorability and pathetic effectiveness of the line.


Open access | Peer reviewed

Submitted: March 21, 2024 | Accepted: July 3, 2024 | Published Dec. 16, 2024 | Language: it

Keywords InterpolationDidymusAncient actorsMedeaAncient scholia

1 Introduzione

Nel corso del tempo, i critici hanno offerto diverse interpretazioni degli scolii ai versi 356 e 380 della Medea, entrambi tràditi a margine dal Parisinus graecus 2713 (sigla B), e manca tuttora una trattazione esaustiva della questione. I due scolii riportano il parere di Didimo a proposito della ripetizione del trimetro σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος, tràdito come plus-verso dopo il verso 356 e come verso 380 del testo tràdito. Questi due scolii ‘complementari’ sono particolarmente rilevanti sia perché ci danno importanti informazioni sul metodo di lavoro di Didimo sia perché si intrecciano, da un lato, con il problema delle interpolazioni d’attore e delle testimonianze antiche su questo fenomeno; dall’altro, con quello dei versus iterati euripidei. Il verso in questione, infatti, ritorna anche come v. 41 del prologo della Medea1 e i vv. 40-1 sono pressoché identici ai vv. 379-80.2

Ringrazio il Prof. Enrico Medda per aver discusso con me il presente lavoro, che nasce nell’ambito del seminario dottorale Pisa-Parigi 2021, organizzato dall’Università di Pisa e dalla Scuola Normale in collaborazione con l’École Normale Supérieure di Parigi, l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e la Sorbonne Université. Ringrazio la Dottoressa Giulia Dovico per aver letto queste pagine e per i suoi preziosi consigli. Grazie, infine, ai referees per gli utili suggerimenti. Eventuali errori e imprecisioni sono da attribuire a chi scrive.

1 Gli scolii non fanno alcun riferimento alla presenza di questo verso anche nel prologo della tragedia.

2 Le coppie di versi divergono solo in due punti: μή al v. 40 al posto di del v. 379; ὤσῃ al v. 40 al posto di ὤσω del v. 379.

In questa sede si esaminerà, dunque, il testo dei due scolii cercando di ricavare il parere di Didimo sulla ripetizione del verso σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος e di ricostruire quali e quante versioni del testo euripideo circolassero in antico e quale potesse essere l’origine di questa pluralità. Non si trascurerà, infine, di offrire una possibile risoluzione del problema testuale dei vv. 40-1 = 379-80.

2 Analisi e interpretazione dei due scolii

Schol. ad Eur. Med. 356 [II 164, 9-11 Schwartz] (= F 188 Coward-Prodi)

οὐ γάρ τι δράσεις:3 Δίδυμος μετὰ τοῦτον φέρει τὸ σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος καὶ μέμφεται τοῖς ὑποκριταῖς ὡς ἀκαίρως αὐτὸν τάσσουσιν. B

3 Questo è il lemma dello scolio, con cui si intende indicare il v. 356 della Medea οὐ γάρ τι δράσεις δεινὸν ὧν φόβος μ’ ἔχει (cf. Nünlist 2009, 10).

Non farai certo qualcosa: Didimo dopo questo tramanda il verso σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος e rimprovera gli attori di collocarlo male.

Gli studiosi sono divisi nell’interpretazione dello scolio: mentre alcuni suggeriscono che si stia parlando di un intervento editoriale di Didimo stesso,4 il quale avrebbe arbitrariamente spostato il verso in questa posizione; altri credono che Didimo stesse diagnosticando un’interpolazione d’attore, ovvero che, a suo avviso, sarebbero stati gli attori a mettere il verso in questo punto.5 Questa seconda opzione è senz’altro preferibile. Il verbo φέρω, nella lingua dei commentatori antichi, indica, infatti, di norma il testo tràdito6 e pertanto il senso dello scolio deve essere che Didimo attestasse la presenza del trimetro in questione dopo il v. 356. È vero che il verbo φέρω con questa accezione è solitamente impiegato alla diatesi passiva (φέρεται / φέρονται), ma ci sono almeno due casi – provenienti l’uno dagli scolii omerici, l’altro dagli scolii tragici – in cui φέρω è attestato all’attivo e ha come soggetto un’auctoritas:

4 Cf. Klotz 1842; Bruhn 1887; Malzan 1908; Zunzt 1965; Hamilton 1974.

5 Cf. Nauck 1859; Baumert 1968; Willink 1988; Diggle 1994; Tedeschi 2010; Finglass 2015.

6 Cf. e.g. Schol. ad Eur. Hec. 13 νεώτατος δ’ ἦν: ἀντὶ τοῦ ἤμην φησίν. Ἀττικῶς δὲ ἦν. καὶ χωρὶς δὲ τοῦ ν ἦ, ἀντὶ τοῦ ἔα. οὕτω Δίδυμος. ἐν μέντοι τοῖς ἀντιγράφοις ἦν φέρεται καὶ κοινὴ ἀνάγνωσις ἦν, ad Or. 957 ἐν ἐνίοις δὲ οὐ φέρονται οἱ τρεῖς στίχοι οὗτοι, 1229 ἐν τῷ ἀντιγράφῳ οὐ φέρονται οὗτοι οἱ δ ἴαμβοι, [καὶ] ἐν ἄλλῳ δέ.

Schol. ad Hom. Od. 11.239

ὃς πολὺ κάλλιστος ποταμῶν: […] δύναται δὲ καὶ τὸ αἶαν μὴ τὴν γῆν λέγειν, ἀλλ’ ὄνομα κρήνης. φέρει δὲ τὸ ἔπος καὶ Εὔδοξος ἄνευ τοῦ νἈξίου, οὗ κάλλιστον ὕδωρ ἐπικίδναται Αἶα”. HQT

Che è davvero il più bello dei fiumi: […] anche τὸ αἶαν può indicare non la terra, ma il nome di una sorgente. Anche Eudosso attesta la parola senza la -ν “l’Assio, la cui acqua bellissima spande l’Aia”.

Schol. ad Eur. Phoe. 264 [I 284, 20-1 Schwartz]

οὐ μεθῶσ’ ἀναίμακτον χρόα: ἡ μὲν γραφὴ οὐκ ἐκφρῶσιν. οἱ οὖν ὑποκριταὶ διὰ τὸ δυσέκφορον μεταπλάττουσι τὴν λέξιν. καὶ Φιλόξενος ἐν τῷ περὶ μονοσυλλάβων ῥημάτων, ὅτε διαλαμβάνει περὶ τοῦ φρῶ, ταύτην τὴν χρῆσιν φέρει. AB

Non mi lascino andare incolume: esiste anche la lezione οὐκ ἐκφρῶσιν. Gli attori modificano la parola a causa della difficoltà di pronuncia. Anche Filosseno nelle ‘Discussioni sui monosillabi’, quando tratta il verbo φρῶ, tramanda questo esempio.

Sebbene nessuno di questi casi sia sovrapponibile alla situazione testuale presa qui in esame, è evidente che i due commentatori stiano citando questi autori come testimoni: Eudosso attesta l’uso del termine Αἶα per indicare la sorgente del fiume Assio e Filosseno cita il verso 264 delle Fenicie all’interno della trattazione del verbo φρῶ, dimostrando la bontà della lezione οὐκ ἐκφρῶσιν.7 Pare, dunque, verosimile che, anche in questo caso, lo scoliasta venisse a conoscenza della circolazione del verso σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος come verso 356a della Medea proprio dall’hypomnema di Didimo. Ciò, però, non significa assolutamente che lo studioso alessandrino ritenesse il verso autentico. Per farsi un’idea più chiara dell’opinione di Didimo occorre, allora, prendere in considerazione anche lo scolio al v. 380.

7 Da qui Bergk e Dindorf ricavarono οὐκ ἐκφρῶσ’, accolta dagli editori più recenti.

Schol. ad Eur. Med. 380 [II 164, 31-2 Schwartz] (= F 189 Coward-Prodi)

ὧδε καλῶς κεῖται. Δίδυμος σημειοῦται ὅτι κακῶς οἱ ὑποκριταὶ τάσσουσιν: – ἐπὶ τῶν δύο τὸ σιγῇ δόμους εἰσβᾶσα· καύσω ἢ σφάξω αὐτούς: – πρὸς τὸ ἐπελθεῖν αὐτοῖς κοιμωμένοις. B8

8 In questo scolio manca il lemma e Dindorf lo assegnava erroneamente al v. 379.

Così sta bene. Didimo segnala che gli attori collocano male (sc. il verso). È da intendere a proposito delle due opzioni il σιγῇ δόμους εἰσβᾶσα: darò fuoco o sgozzerò loro. È riferito al fatto che li assalirà mentre dormono.

In questo scolio, il commento didimeo risulta inglobato nell’argomentazione di un altro commentatore: secondo costui il verso in questa posizione è corretto e aggiunge che Didimo lo segnala perché gli attori hanno fatto confusione con la collocazione del verso. Nei due scolii successivi9 si dice, poi, che il verso deve essere riferito a entrambe le opzioni espresse da Medea, ovvero che l’omicidio avverrà nella camera da letto dei due sposi, sia che lei decida di usare il fuoco sia il pugnale,10 e che li assalirà mentre dormono.

9 Il manoscritto B (f. 114r) riporta un dicolon tra τάσσουσιν ed ἐπὶ τῶν δύο e un dicolon prima di πρὸς τὸ ἐπελθεῖν αὐτοῖς κοιμωμένοις (quest’ultimo è incongruamente separato dagli altri due da un commento riferito al v. 385 σοφοῦ ἐστι τὸ τὰ ἀντιπίπτοντα λύειν [II 165, 5 Schwartz]).

10 Non mi pare, invece, opportuno riferire ἐπὶ τῶν δύο ai due sposi.

Dalla menzione delle due alternative (ἐπὶ τῶν δύο) cui sarebbe riferita l’entrata silenziosa di Medea nella stanza di Giasone e Glauce, Willink11 evinceva che, in antico, circolassero opinioni diverse in merito all’ordine di questi versi e che Didimo avrebbe, con maggiore probabilità, contribuito all’affermazione della ‘vulgata’, che mette il v. 380 dopo i vv. 378-9, invece che dopo il v. 378 (i.e. 378-80-79). Tuttavia, il commentatore con l’affermazione ἐπὶ τῶν δύο τὸ σιγῇ δόμους εἰσβᾶσα· καύσω ἢ σφάξω αὐτούς sta semplicemente spiegando il senso del v. 380 in questo contesto. Tra l’altro, Willink, nel formulare questa ipotesi, sembra ritenere plausibile la punteggiatura dello scolio adottata da Dindorf (ovvero senza distinzione tra Δίδυμος σημειοῦται ὅτι κακῶς οἱ ὑποκριταὶ τάσσουσιν e ἐπὶ τῶν δύο τὸ σιγῇ δόμους εἰσβᾶσα· καύσω ἢ σφάξω αὐτούς), che, però, è una correzione che risale alla princeps.12 Nel manoscritto, infatti, dopo Δίδυμος σημειοῦται ὅτι κακῶς οἱ ὑποκριταὶ τάσσουσιν, c’è la paragraphos e non c’è motivo di sospettare la suddivisione dei commenti riportata dal copista.

11 Willink 1988, 315.

12 Cf. Arsenius 1544, 427.

Dal momento che manca, poi, nel testo dello scolio qualsiasi elemento linguistico che marchi un’opposizione (e.g. la particella δέ)13 rispetto al parere di Didimo, è probabile che chi scrisse questo commento fosse d’accordo con il Calcentero e che, quindi, entrambi ritenessero autentico il v. 380 e spurio il v. 356a. Il commentatore citerebbe, dunque, l’auctoritas di Didimo per dare maggiore credibilità alla sua ricostruzione del testo. Tra l’altro, l’opinione di Didimo sembrerebbe in questo caso essere in accordo con la paradosi medievale del testo di Euripide, dal momento che i manoscritti non tramandano il trimetro dopo il v. 356, ma lo accolgono come v. 380 della tragedia.

13 Cf. Baumert 1968, 86-8.

Resta da capire che cosa significhi l’espressione Δίδυμος σημειοῦται. Prima di tutto, è evidente che Didimo volesse segnalare al lettore il v. 380. Il verbo σημειόω negli scholia antichi (non solo tragici)14 evidenzia, infatti, passi notevoli ed è impiegato, per esempio, in corrispondenza di versi o sintagmi che presentano anomalie o somiglianze con altri versi o proverbi, oppure che risultano ridondanti o inopportuni, insieme a ὅτι, che introduce il motivo della segnalazione.15 In questo caso, la particolarità consisterebbe evidentemente nel fatto che si tratta di un verso ripetuto, un fenomeno ben attestato in Euripide e che non doveva passare inosservato agli studiosi antichi.16 Pare, però, che questa ripetizione del trimetro non risultasse autentica a Didimo, dal momento che egli accusa appunto gli attori di aver collocato male il verso. Non sappiamo su che argomenti si basasse il sospetto dello studioso, ma, dal momento che il v. 356a non è tramandato a testo dai codici, è possibile che già all’epoca fosse assente da alcune copie della Medea e che lo studioso alessandrino, in un certo senso, ne diagnosticasse l’interpolazione ope codicum.17 D’altronde, mancano considerazioni di natura linguistica e di contenuto a sostegno del sospetto di interpolazione e uno scolio al v. 7 dell’Andromaca ci conferma che i commentatori antichi potevano effettivamente ritenere gli attori responsabili dell’interpolazione di un verso, a partire da situazioni testuali incerte – nel caso dell’Andromaca l’esistenza della variante δὴ τίς al posto del tràdito δ’ εἴ τις.

14 Negli scolii omerici, per esempio, sono molto frequenti i commenti di Aristonico introdotti da ὅτι, che presuppongono in origine la forma più estesa τὸ σημεῖον ὅτι e anche il verbo σημειόω è ampiamente attestato. In generale, il verbo σημειόω, nella lingua dei grammatici greci, può significare semplicemente ‘NB’ (nota bene) oppure ‘to mark with a marginal sign’ (trad. Nünlist 2009, 207). Il segno χ, per esempio, sembra avere solitamente il valore generico di ‘nota bene’ ed era impiegato proprio per rimandare il lettore alle osservazioni svolte nel commento (vedi infra a proposito del v. 81 dell’Oreste).

15 Cf. e.g. Schol. ad Eur. Hipp. 171 [Cavarzeran 2016, 148] a. τήνδε κομίζουσ’: τοῦτο σεσημείωκεν Ἀριστοφάνης (fr. 390b Slater), ὅτι κατὰ τὸ ἀκριβὲς τὸ ἐκκύκληματοιοῦτόν ἐστιτῇ ὑποθέσει. ἐπὶ γὰρ τῆς σκηνῆς δείκνυται τὰ ἔνδον πραττόμενα, ὁ δὲ ἔξω προϊοῦσαν αὐτὴν ὑποτίθεται; b. τήνδε κομίζουσ’ ἔξω: τοῦτο σεσημείωται τῷ Ἀριστοφάνει (fr. 390a Slater), ὅτι καίτοι τῷ ἐκκυκλήματι χρώμενος τὸ ἐκκομίζουσα προσέθηκεν περισσῶς. MV, ad Med. 87 [II 148-9 Schwartz] οἱ μὲν δικαίως: […] ὁ πρότερος δὲ σεσημείωται, ὅτι παροιμιώδης B; ad Or. 81 [I 105, 5-8 Schwartz] Ἑλένη, τί σοι λέγοιμ’ ἄν: πρὸς πάσας τὰς ὕβρεις ἀντέθηκε τὸ Ἑλένη, ὅθεν καὶ χιάζεται ὁ στίχος· σεσημείωται γὰρ τὸ ὄνομα τῆς Ἑλένης. αἰνίττεται δὲ ὅτι πονηρῶς κερτομεῖ περὶ τούτων πυνθανομένη ὧν παροῦσα ὁρᾷ; MTAB.

16 Cf. e.g. ΣB ad Eur. Med. 693 [II 179, 2-4 Schwartz] τί χρῆμα δράσας: σεσημείωται ὁ στίχος, ὅτι καὶ ἐν Πελιάσιν [fr. 602] ἐστὶν, ὧν ἀρχὴ [fr. 601] ‘Μήδεια πρὸς μὲν δώμασιν τυραννικοῖς’. Sull’atteggiamento e sull’esercizio dell’atetesi nei confronti dei versus iterati dei critici alessandrini (in particolare di Aristarco) si rimanda a Lührs 1992, 149-222.

17 Baumert 1968, 88 credeva che Didimo attestasse con il suo commento una trasposizione del verso non un’interpolazione, ovvero che gli attori collocassero il verso σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος dopo il v. 356 e che non lo ripetessero dopo il v. 380. Tuttavia, l’espressione ἀκαίρως αὐτὸν τάσσουσιν | κακῶς τάσσουσιν indica solo che il verso, seppur autentico, in questa posizione è sbagliato, non che è stato trasposto da un passo all’altro.

Non sappiamo in che forma si presentassero gli hypomnemata di Didimo ai testi tragici, ma è probabile che fossero disposti secondo l’ordine sintagmatico del testo, soffermandosi su punti specifici bisognosi di trattazione, e che le porzioni di testo interessate dal commento fossero segnalate con segni critici.18 Se così fosse, questo commento potrebbe implicare anche l’esistenza di un segno critico – si pensi, a proposito, allo scolio al verso 81 dell’Oreste, dove σημειόω è esplicitamente riferito ad un verso che era stato marcato con il semeion χ19 – collegava il commentario di Didimo al testo da lui commentato20 e, considerando che si tratta di un verso ripetuto e che il segno sembra appòsto in prossimità del verso che Didimo considerava autentico (i.e. il v. 380), è plausibile che si trattasse dell’asterisco. Infatti, Aristofane e Aristarco impiegavano proprio l’asterisco per segnalare i versi ripetuti e aggiungevano l’obelos in prossimità dei versi ripetuti che ritenevano spuri21 ed è verosimile che Didimo si conformasse alla pratica dei suoi predecessori nell’uso dei segni critici. Gli scolii omerici ci tramandano (per fortuna) alcuni contesti paralleli in cui l’autenticità dei versus iterati era discussa in antico e il dibattito è documentato da due scolii tràditi a margine dei rispettivi versi.

18 Cf. Mastronarde 2017, 9. Importanti sono le osservazioni di Luzzatto 2012 in merito ai frammenti del commentario di Didimo a tutto Demostene riportati da P.Berol. 9780r: la studiosa insiste giustamente sul rapporto organico che doveva sussistere tra il formato dell’esegesi e le caratteristiche del testo cui si applicava e mette in guardia dall’applicare parametri troppo rigidi nella ricostruzione di queste opere esegetiche (da un punto di vista sia formale sia di contenuto).

19 Questo segno critico ‘tuttofare’ (vedi supra, nota 14) è il più diffuso nei corpora degli scholia vetera ai poeti drammatici antichi, mentre è assente dagli scolii ai poeti epici (in particolare a Omero) ed è attestato in maniera discontinua nei papiri che tramandano scolii a testi poetici antichi. Sulla questione si rimanda a Pontani 2018.

20 Dunque, secondo la pratica di Aristarco, il cui hypomnema consisteva appunto nella spiegazione dei segni critici impiegati nella sua diorthosis dei testi omerici (cf. Schironi 2018, 53-4). Non a caso, infatti, la Suda (δ 872 Adler, T1) definisce Didimo γραμματικὸς Ἀριστάρχειος. A differenza del suo predecessore non pare, però, che Didimo avesse allestito un’edizione critica del testo tragico e si deve immaginare che basasse il suo hypomnema sul testo più affidabile circolante all’epoca.

21 Per una trattazione esaustiva della questione e per ulteriori esempi si rimanda a Nocchi-Macedo 2011, 6-7 e Schironi 2018, 49-51.

schol. ad Hom. Il. 2.56b

ὁ δὲ ἀστερίσκος, ὅτι ἐν τῇ ξ τῆς Ὀδυσσείας (495) κακῶς φέρεται. A

L’asterisco per il fatto che è tramandato in modo scorretto nel libro 14 dell’Odissea.

schol. ad Hom. Il. 5.734-6

οἱ ἀστερίσκοι, ὅτι ἐνταῦθα μὲν καλῶς κεῖνται, ἐν δὲ τῇ κόλῳ μάχῃ (sc. Θ 385-7) μηδεμιᾶς φαινομένης ἀριστείας οὐ δεόντως. ὁ δὲ Ζηνόδοτος τούτους μὲν ἀθετεῖ, ἐκείνους δὲκαταλείπει†. A

Gli asterischi per il fatto che qui stanno bene, mentre nella ‘battaglia interrotta’ (sc. Θ 385-7), dal momento che non c’è nessuna aristia, non ce n’è bisogno. Zenodoto espunge questi versi, lascia invece quelli.22

22 Il verbo ‘καταλείπω’ pare sinonimo di ‘ἐάω’ e sembra indicare la situazione in cui Zenodoto non interviene sul testo: cf. e.g. Schol. ad Il. 8.312a ὅτι ἐνταῦθα καταλέλοιπε Ζηνόδοτος Ἀρχεπτόλεμον, πεποίηκε δὲ ἄνω [sc. Θ 128] “Ἰφιτίδην Ἐρασιπτόλεμον”, ad. Il. 8.128 Ἀρχεπτόλεμον: ὅτι Ζηνόδοτος ἐνθάδε μὲν γράφειἘρασιπτόλεμον”, ἐν δὲ τοῖς μετὰ ταῦτα [sc. Θ 312] εἴασενἈρχεπτόλεμον”. Erbse mette, però, il verbo tra cruces perché, nel commento a Θ 385-7, si dice che Zenodoto non scriveva nemmeno questi versi. Per risolvere la contraddizione Ludwich suggeriva di scrivere παραλείπει ‘omette’ al posto di καταλείπει, ma μὲν ἀθετεῖ / δὲ παραλείπει non formano una felice opposizione e, inoltre, παραλείπω è altrove riferito a omissioni di tipo narratologico (cf. Römer 1886, 661-2 e Nünlist 2009, 161-71). D’altra parte, senza la ripetizione di Θ 385-7, mancherebbe a Zenodoto la ragione stessa per l’espunzione di E 734-6 e, infatti, dal commento a questi versi (Θ 385-7) l’omissione di Zenodoto sembrerebbe comprovarne l’espunzione (cf. West 2002, 141). La questione è senz’altro complessa e meriterebbe di essere approfondita.

schol. ad Hom. Il. 24.210

ὅτι ἐνταῦθα καλῶς κεῖται, ἐπὶ δὲ Ἀχιλλέως ἐν τῇ Υ (sc. 128) οὐκέτι. A

Per il fatto che qui stanno bene, invece a proposito di Achille nel libro 20 (sc. 128) non più.

In tutti questi casi,23 l’asterisco risulta apposto in prossimità del verso ‘giusto’ e nello scolio si segnala in quale altro passo esso è ripetuto e si spiega perché sarebbe corretto in questa posizione e non nell’altra. Negli scolii ‘complementari’, ovvero quelli tràditi a margine dell’altro verso ripetuto, si dice, invece, esplicitamente che il verso è espunto. Una situazione, dunque, simile a quella dei due scolii didimei ai versi 356 e 380 della Medea, anche per il ricorrere degli stessi termini (cf. καλῶς κεῖται e κακῶς φέρεται).

23 È, tra l’altro, notevole che questi scolii risalgano tutti ad Aristonico.

schol. ad. Hom. Od. 14.495

ἀθετεῖται ὡς ἐκ τῆς Ἰλιάδος (β 56) μετενηνεγμένος. γελοῖον δὲ εἰπεῖν καὶ τὸν ἐν λόχῳ καθυπνωκέναι. H

È espunto per il fatto che è preso dall’Iliade (β 56). È ridicolo dire che quello nell’imboscata si è addormentato.

schol. ad. Hom. Il. 8.385-7a1

ἀθετοῦνται στίχοι τρεῖς, ὅτι ἐν τῇ τοῦ Διομήδους ἀριστείᾳ (sc. Ε 734-6) καλῶς ἐπεξείργασται· πράττεται γάρ τινα. ἐνταῦθα δὲ πρὸς οὐδὲν ἀναλαμβάνει τὴν παντευχίαν. | ἠθέτει δὲ καὶ Ἀριστοφάνης. Ζηνόδοτος δὲ οὐδὲ ἔγραφεν. A

I tre versi sono espunti per il fatto che nell’aristia di Diomede (sc. Ε 734-6) è ben elaborato. Infatti, hanno un effetto.24 Qui invece indossa l’armatura per niente. Espungeva anche Aristofane, Zenodoto, invece, non li scriveva nemmeno.

24 «They achieve something» (trad. Nünlist 2009, 207).

schol. ad. Hom. Il. 20.125-8a

ἀθετοῦνται στίχοι τέσσαρες, ὅτι τοὐναντίον ὁ Ζεὺς λέγει, “εἰ γὰρ Ἀχιλλεὺς οἶος ἐπὶ Τρώεσσι μαχεῖται, | οὐδὲ μίνυνθ’ ἕξουσι” (Υ 26-7). A

Sono espunti i quattro versi per il fatto che al contrario Zeus dice “se infatti Achille dovesse combattere da solo contro i Troiani, non lo tratterranno neppure per poco” (Υ 26-7).

Considerando, però, che, a differenza di questi versi ripetuti, nella Medea l’esistenza del v. 356a è attestata soltanto dallo scolio, si conferma l’impressione che lo scoliasta non leggesse più a testo il v. 356a, ma si limitasse a riportare a margine il parere che Didimo esprimeva nel suo hypomnema. A confortare questa ipotesi è anche il fatto che, alla fine del manoscritto B, si trova una sottoscrizione molto sintetica in cui sono citate come fonti Dionisio e Didimo. Il testo è molto simile a quello della subscriptio dell’Oreste ed è possibile che le due sottoscrizioni debbano essere lette in parallelo:25 (Medea) πρὸς διάφορα ἀντίγραφα Διονυσίου ὁλοσχερὲς καί τινα τῶν Διδύμου; (Orestes) πρὸς διάφορα ἀντίγραφα παραγέγραπται ἐκ τοῦ Διονυσίου ὑπομνήματος ὁλοσχερῶς καὶ τῶν μικτῶν. La sottoscrizione dell’Oreste sembra, infatti, riportare la medesima informazione in forma più estesa: è presente il verbo παραγέγραπται, che può voler dire ‘scrivere a margine’ o più probabilmente ‘citare’ ed ‘escertare’26 e si specifica che si sta parlando dell’hypomnema di Dionisio; al posto di Didimo sono, però, menzionati dei commenti ‘misti’. Dall’opposizione ἐκ τοῦ Διονυσίου ὑπομνήματος ὁλοσχερῶς e τῶν μικτῶν di questa sottoscrizione sembrerebbe, dunque, si possa ricavare che il commentario di Dionisio sia stato consultato in maniera sistematica27 (per quanto in una versione probabilmente epitomata) e che invece gli altri commenti consistessero in una raccolta dei pareri di diversi studiosi. Il senso del colofone alla Medea potrebbe essere, invece, che è stato consultato l’hypomnema di Dionisio in modo sistematico e solo alcune parti28 dell’hypomnema di Didimo. La questione è intricata,29 ma non ci sono molti dubbi sul fatto che si stia parlando solo del materiale esegetico annotato a margine del testo. Anche nel caso dei versi 356a=380, lo scoliasta starebbe, dunque, riportando l’opinione espressa da Didimo nel suo hypomnema e si deve allora presumere che dallo stesso hypomnema derivassero anche le informazioni relative ai semeia e, in generale, al testo commentato dallo studioso.

25 Si veda a proposito Montana 2013. Lo studioso mette le due subscriptiones tragiche a confronto con quelle tràdite in coda alle Nuvole, gli Uccelli e la Pace di Aristofane, che presentano lo stesso lessico.

26 Cf. Montana 2013.

27 Ambiguo è il significato di ὁλοσχερῶς/ὁλοσχερές, che può essere tradotto sia ‘in modo approssimativo’ sia ‘interamente’. Come nota, però, Mastronarde 2017, 13 l’opposizione dei termini ὁλοσχερὲς e τινα nella subscriptio alla Medea fa preferire la traduzione ‘interamente’.

28 «τινα is better taken as ‘some annotations’ (that is, not the whole commentary) rather than ‘some copies’ (ἀντίγραφα)» (Mastronarde 2017, 13 nota 47).

29 Per un maggiore approfondimento si rimanda a Zuntz 1965, 272-5; McNamee 2007, 79-92; Montana 2011, 150-2; 2013; Pagani 2014; Mastronarde 2017, 11-13.

L’ipotesi di ricostruzione più plausibile è, allora, che, all’epoca di Didimo, circolassero ancora delle copie del testo della Medea in cui il verso σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος era tràdito anche dopo il v. 356, e che Didimo – forse proprio a partire dall’attestazione discontinua del verso – segnalasse nel suo commentario l’inappropriatezza della ripetizione attribuendone la responsabilità agli attori. Dal momento che un semeion sembrerebbe documentato solo in riferimento al v. 380 non possiamo, però, sapere con certezza né se il testo commentato da Didimo tramandasse effettivamente il v. 356a (o se lo studioso ne venisse a conoscenza da altre copie o da altri commentari più antichi),30 né se Didimo lo espungesse apponendovi l’obelos, secondo la pratica zenodotea-aristarchea.

30 «Either Didymus himself saw it [sott. il v. 356a] in a copy or copies known to him, or he knew of it from the report of an earlier scholar, possibly Aristophanes or Callistratus» (Mastronarde 2017, 22 nota 9). Dello stesso parere è Coward 2020, 39.

3 L’interpolazione dei versi 41 e 356a della Medea e la circolazione antica del verso ‘σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος’

Questo trimetro è attestato dai codici della Medea come v. 41 del prologo e come v. 380 del primo monologo di Medea.31 Inoltre, pare, appunto, che in alcune copie antiche fosse attestato anche alla fine dell’ultima battuta di Creonte, dopo il v. 356. Sebbene a pronunciarlo siano sempre personaggi diversi (la Nutrice nel prologo, Creonte e Medea nel primo episodio), il verso è riferito in tutti i passi a Medea e, in particolare, al suo ingresso in silenzio nella camera da letto sua o dei due sposi, Giasone e Glauce. Infatti, nel prologo, la nutrice sembra temere che Medea sfugga silenziosamente alla sua supervisione per commettere il suicidio32 nella sua camera da letto, su modello di personaggi femminili come Euridice nell’Antigone, Giocasta nell’Edipo Re e Fedra nelle Trachinie;33 nel primo episodio, invece, il verso è in entrambi i casi riferito all’entrata di Medea nella stanza di Giasone e Glauce con l’obiettivo di assassinare i due sposi. Il verso non crea problemi gravi in nessun passo – anche perché la sua forma sintatticamente indipendente lo rende facilmente adattabile ai diversi contesti – ma, mentre nel monologo di Medea è perfettamente in linea con il discorso, nel prologo e nella battuta di Creonte desta, invece, qualche perplessità.

31 Il coro è presente sulla scena, ma la sua presenza è ininfluente.

32 Cf. Harsh 1937; Pratt 1943; Erbse 1984; Willink 1988.

33 Si vedano le celebri scene sofoclee OT 1074-5 ᾄξασα λύπης ἡ γυνή; δέδοιχ’ ὅπως | μὴ ’κ τῆς σιωπῆς τῆσδ’ ἀναρρήξει κακά (a proposito di Giocasta); Ant. 1250 Χο. οὐκ οἶδ’· ἐμοὶ δ’ οὖν ἥ τ’ ἄγαν σιγὴ βαρὺ | δοκεῖ προσεῖναι χἠ μάτην πολλὴ βοή (a proposito di Euridice); e soprattutto Tr. 813 Χο. τί σῖγ’ ἀφέρπεις; (a proposito di Deianira).

3.1 Il prologo: v. 41

È prima di tutto strano che la nutrice dica di temere che Medea entri in silenzio nella camera da letto, quando lei stessa l’ha appena lasciata da sola dentro alla casa, in preda ai lamenti e alla disperazione. È vero che la silenziosa uscita di scena di un personaggio è più volte – nelle tragedie di Sofocle – un sinistro preludio del suicidio, ma, nelle parole della Nutrice, il dativo σιγῇ sembra piuttosto far intendere che Medea cercherà di introdursi di nascosto nella sua stanza da letto.34 In tragedia, infatti, il silenzio dei personaggi suicidi è sintomo di un enorme dolore e viene sottolineato proprio per mettere in risalto l’eccezionalità della sofferenza di questi personaggi; qui, invece, il motivo psicologico risulterebbe stilizzato e oltretutto in contraddizione con il resto della rhesis, dove la Nutrice sembra far capire che Medea sta esternando la propria rabbia e il proprio dolore con grida e lamenti (cf. vv. 21-3, 25, 31). Il verso crea, dunque, problemi sia che si interpreti il silenzio di Medea come un modo per non farsi notare dalla nutrice sia che lo si riferisca al suo sconvolgimento emotivo. Secondo Page non sarebbe, poi, nemmeno chiaro di che camera si tratti, poiché mancano ulteriori specificazioni (come δῶμα νυμφικὸν del v. 378), ma l’immagine del suicidio femminile nella propria stanza da letto è topica in tragedia e non pare, dunque, che il testo, almeno sotto questo aspetto, dovesse creare reali difficoltà.35 La trasposizione del v. 41 dopo il v. 42 potrebbe effettivamente risolvere il problema, ma si tratta di un intervento altrettanto arbitrario e, a mio avviso, più macchinoso dell’espunzione. Occorre, poi, ricordare che il v. 41 è inserito in una sezione del monologo della Nutrice (vv. 38-43) che è stata ritenuta variamente sospetta dagli editori.36 Tuttavia, gli argomenti avanzati dagli studiosi contro l’autenticità di questi versi non sono conclusivi37 ed è verosimile che la serva dia ora sfogo alle sue preoccupazioni, delineando tutti i modi rovinosi in cui la sua padrona potrebbe reagire al tradimento di Giasone. La pluralità di possibilità ventilate dalla Nutrice (il suicidio e l’assassinio di Giasone o Glauce) e incorniciate dagli inquietanti riferimenti ai figli di Medea e all’odio che quest’ultima prova per loro ha, infatti, l’obiettivo di disorientare lo spettatore lasciandolo con la sola certezza che accadrà qualcosa di terribile. Come sosteneva Masullo: «il poeta lascia intenzionalmente ambiguo e indefinito il passo perché si instauri un’atmosfera di incertezza e terrore ove tutto potrà essere possibile».38 D’altra parte, il sospetto degli editori su questo passo del prologo si fonda principalmente sulla somiglianza dei vv. 40-1 con i vv. 379-80.39 Per molto tempo, infatti, si è creduto che la ripetizione di interi versi in tragedia – e soprattutto all’interno della medesima opera – non potesse essere autentica, ma gli studi di Harsh, Arnott, Baumert e soprattutto Mueller-Goldingen40 hanno dimostrato come Euripide potesse intenzionalmente ripetersi al fine di intensificare il pathos di una scena e creare ironia, di chiarire il testo, e di evidenziare allusioni e Leitmotive. In questo caso, la ripetizione crea un effetto di ironia tragica41 dando una conferma ai presentimenti della nutrice: il piano di Medea inizia a prendere forma e, con un sorprendente ribaltamento, il pugnale affilato diventa, nelle parole della protagonista, una delle possibili vie con cui intende togliere di mezzo Giasone e la sua nuova compagna. L’effetto ironico non si perde con l’espunzione del v. 41, dal momento che la ripetizione del v. 40 = 379 è sufficiente ad innescare la memoria allusiva tra i due passi.42 Si potrebbe allora essere verificata una situazione simile a quella dell’interpolazione del v. 537 dell’Oreste, dove l’interpolatore sembrerebbe aver aggiunto il v. [537] = 626, sull’onda della ripetizione autentica del v. 536 = 625, creando così due distici paralleli.43

34  Cf. e.g. Eur. Cycl. 426-7 ἐξελθὼν δ’ ἐγὼ | σιγῇ σὲ σῶσαι κἄμ’.

35 Cf. Pratt 1943, 35.

36 La proposta di espunzione dei vv. 38-42 avanzata da Dindorf 1832 è stata accolta da Wecklein 1899; Page 1938; 1955; Regenbogen 1950; Müller 1951; Christmann 1962; Reeve 1973; Diggle 1984; Mastronarde 2002; Nauck 1859; Dindorf 1869 e Méridier 1925 espungevano solo i vv. 40-3; Kirchhoff 1855; Mueller-Goldingen 1985 i vv. 40-1; Musgrave 1778 solo il v. 41, seguito da Brunck 1793; Elmsley 1818; Porson 1820; Fix 1843; Willink 1988; Valckenaer 1755 solo il v. 42.

37 Gli argomenti che hanno avuto maggior successo tra i critici sono il fatto che la nutrice alluda solo qui alla volontà suicida di Medea; che questa ‘anticipazione’ sia contraddetta dallo sviluppo della trama; che al v. 40 non sia chiaro a chi appartenga il fegato di cui si sta parlando; che ἢ καὶ τύραννον non può essere inteso come τὴν τύραννον (i.e. riferito a Glauce) come, invece, richiederebbe il contesto; e la ripetitività delle espressioni βαρεῖα γὰρ φρήν del v. 38 a fronte di δεινὴ γάρ del v. 44, e δειμαίνω τέ νιν v. 39 a fronte di δέδοικα δ’ αὐτὴν del v. 37. A queste obbiezioni si può rispondere che la Nutrice pensa solo per un attimo che Medea possa suicidarsi per poi rigettare questa ipotesi a favore di eventualità più in linea con il carattere della donna; che non si tratta di un’anticipazione – e neppure di una ‘profezia’ (pace Wecklein) – bensì di un presentimento nefasto della nutrice; che l’impiego di τύραννον, senza articolo, per indicare una donna della famiglia reale è documentato in Euripide (cf. e.g. Med. 877 γήμας τύραννον, di nuovo riferito a Glauce e associato al verbo γαμέω; Hec. 809 τύραννος ἦ ποτ’ ἀλλὰ νῦν δούλη σέθεν e Tro. 474 ἦ μὲν τύραννος κἀς τύρανν’ ἐγημάμην entrambi riferiti a Ecuba) e che la difficoltà del v. 42 potrebbe eventualmente anche essere superata accogliendo nel testo la correzione τυράννους di Hermann 1819, che inserisce nel testo un plurale generico ambiguamente riferito sia a Glauce sia al padre Creonte; infine, le considerazioni sulle ripetizioni che il testo presenterebbe e che hanno convinto Page a supporre un caso di dittografia risultano parecchio arbitrarie (la ripetizione non è nemmeno formale) e per di più si può sostenere, seguendo Willink (1988, 323), che la ridondanza qui serva a esprimere la forte preoccupazione della nutrice.

38 Masullo 1974-75, 51.

39 Già Valckenaer 1755 espungeva i vv. 379-80 proprio perché uguali ai vv. 40-1.

40 Harsh 1937; Arnott 1961; Baumert 1968; Mueller-Goldingen 1985. Faccio riferimento all’appendice del volume sulle Fenicie.

41 Secondo Harsh 1937, 439, l’impiego della medesima formulazione con un lieve scarto di significato servirebbe ad Euripide per suscitare nello spettatore, a partire dal prologo, un inquietante presentimento, che poi verrà stravolto ‘a sorpresa’ dalle effettive decisioni di Medea. La ripetizione indirizza, dunque, e focalizza l’attenzione del pubblico.

42 Willink 1988 (seguito da Van Looy 1992) espungeva, invece, anche il v. 379 ἢ θηκτὸν ὤσω φάσγανον δι’ ἥπατος sostenendo che il v. 379 sarebbe stato interpolato in un momento precedente e avrebbe suggerito l’interpolazione del v. 41. Inizialmente avevo trovato convincente la teoria di Willink 1988, che si basava principalmente su argomenti di lingua e stile. Tuttavia, l’unica seria difficoltà consiste nel fatto che l’espressione ‘trapassare il fegato’, senza ulteriori determinazioni, indica nella lingua tragica il suicidio (cf. e.g. HF 1149 ἢ φάσγανον πρὸς ἧπαρ [scil. ἐμόν] ἐξακοντίσας, e Or. 1063 παίσας πρὸς ἧπαρ [scil. ἐμόν] φασγάνῳ), mentre il contesto rende evidente che Medea sta parlando di pugnalare i due sposi. È, allora, preferibile immaginare che Euripide tollerasse questa forzatura linguistica al fine di introdurre nel testo la patetica ripetizione del verso del prologo.

43 Espungono il v. 537 Hermann 1841; Paley 1860; Wilamowitz 1875; Di Benedetto 1965; West 1987; Diggle 1994; Medda 2001.

3.2 La battuta di Creonte nel primo episodio: v. 356a

L’argomento più rilevante contro l’autenticità del v. 356a è senz’altro la sua assenza dalla paradosi (probabilmente già antica) del testo di Euripide. Il verso, però, non convince nemmeno dal punto di vista stilistico. Sebbene, infatti, non sia necessario che Creonte esca di scena subito dopo aver pronunciato la formula conclusiva λέλεκται μῦθος ἀψευδὴς ὅδε del v. 354 – come ritiene, per esempio, Diggle 1984, che accoglie l’espunzione di Nauck dei vv. 355-6 – è preferibile che egli concluda il suo discorso rassicurando sé stesso sul fatto che Medea non riuscirà certo in un solo giorno a compiere nulla di ciò che lui teme (v. 356 οὐ γάρ τι δράσεις δεινὸν ὧν φόβος μ’ ἔχει).44 In questo modo, infatti, si mette in risalto l’ingenuità del re di Corinto, che esce di scena sottovalutando la pericolosità di Medea. Il verso 356a, invece, farebbe di nuovo inopportunamente vacillare le certezze di Creonte,45 introducendo un riferimento inatteso quanto ellittico alla stanza da letto di Giasone e Glauce. Inoltre, la ripetizione di questo verso anche nella battuta di Creonte indebolisce l’effetto di ribaltamento ‘a sorpresa’ tra il prologo e la battuta paramonologica di Medea.

44 «What we have here, however, is a forced claim of confidence, self-deceiving and tragically ironic, that fits well with the bluster and vacillation that Creon has shown» (Mastronarde 2002, 230).

45 Mastronarde 2002 suggerisce che il verso possa effettivamente essere un’interpolazione per la scena, ad opera di un produttore che voleva intervenire proprio sulla caratterizzazione di Creonte. L’ipotesi è affascinante e ricorderebbe l’interpolazione dei vv. 438-42 delle Fenicie, che introducono nel carattere di Polinice un tratto esplicito di avidità.

3.3 Qualche conclusione

L’interpolazione del trimetro σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ’, ἵν’ ἔστρωται λέχος in queste due sedi sarebbe senz’altro antica e potrebbe avere origine sia libresca sia scenica. Infatti, sia degli attori potrebbero aver inserito il verso nel prologo e nella battuta di Creonte con l’idea di intensificare l’effetto di ironia tragica a fronte del successivo monologo di Medea, sia dei lettori, notando l’affinità tematica tra questi passi potrebbero aver annotato il verso a margine della loro copia determinandone la successiva intrusione a testo, sia – nel caso del v. 356a – un copista potrebbe aver trascritto erroneamente il verso dalla colonna sbagliata, ovvero dal monologo di Medea al v. 380.46 A tal proposito, l’attribuzione da parte di Didimo dell’interpolazione del v. 356a agli attori purtroppo non è determinante, dal momento che i commentatori antichi sembrano credere aprioristicamente che gli errori e le varianti – almeno a loro avviso – deteriori del testo tragico fossero il risultato dello spregiudicato arbitrio degli attori.47 A prescindere, dunque, dall’origine dell’interpolazione – su cui non si può esprimere più che una preferenza – l’impressione è che questo verso risultasse particolarmente memorabile ai fruitori antichi del testo tragico e che questa sua caratteristica, insieme alla forma sintatticamente indipendente, ne abbia favorito l’intrusione (probabilmente poligenetica) in diversi passi della tragedia.48 Mentre l’interpolazione del verso nel prologo sarà stata precocissima – forse anche anteriore all’edizione di Licurgo – determinandone la sopravvivenza all’interno della paradosi del testo euripideo (= Med. 41), l’interpolazione del v. 356a sarà forse stata più tarda e avrà circolato in maniera discontinua fino a raggiungere Alessandria. È, poi, suggestivo immaginare che chi annotò o interpolò il v. 356a leggesse già nel prologo il v. 41, dal momento che in entrambi i passi il verso ricorre in corrispondenza di espressioni di paura (cf. v. 39 δειμαίνω τέ νιν; v. 356 ὧν φόβος μ’ ἔχει) e proprio questa associazione potrebbe aver innescato l’interpolazione del verso anche nella battuta di Creonte.

46 Cf. Finglass 2015. Per un approfondimento sull’origine dei versus iterati non autentici si rimanda a Colli 2023.

47 Cf. Hamilton 1974; Falkner 2002; Finglass 2015.

48 Di questo parere è anche Arnott 1961, 309, che considera, però, entrambi i vv. 40-1 un’interpolazione d’attore.

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