Due volumi collettivi su Livio

Federico Santangelo

Newcastle University, UK

Recensione di Baldo, G.; Beltramini, L. (a cura di) (2019). ‘A primordio urbis’. Un itinerario per gli studi liviani. Turnhout: Brepols, 572 pp. GIF Bibliotheca 19.Recensione di Baldo, G.; Beltramini, L. (a cura di) (2021). ‘Livius noster’. Tito Livio e la sua eredità. Turnhout: Brepols, 901 pp. GIF Bibliotheca 26.

Si parla molto e da più parti della necessità di aprire gli studi classici a nuovi problemi e a nuovi contesti; di misurarsi con lo studio delle periferie e con l’interazione con culture diverse da quella greca e latina; di spogliare il mondo greco e romano di qualunque residua esemplarità; di decolonizzare, decentrare, provincializzare la nostra disciplina e i nostri saperi. Spesso lo si fa con ottime ragioni e intenti ancora migliori; talvolta con argomenti pretestuosi o male informati. I due libri che si discutono qui sembrano condurci in una direzione del tutto diversa. Nel giro di due anni, 2019 e 2021, e nel bel mezzo di una pandemia, Gianluigi Baldo e Luca Beltramini hanno costruito due volumi che ripropongono la centralità di un autore classico quanto pochi altri e ci invitano a fare i conti con l’eccezionale ricchezza della sua opera. A primordio urbis, come recita il titolo del volume del 2019: un ritorno alle origini, un racconto per molti aspetti fondativo. Fare storia romana in una prospettiva comparativa, postcoloniale, o informata dagli sviluppi della storia globale presenta molti vantaggi, e non soltanto perché incontra varie tendenze di moda. Le 1470 pagine dei due volumi ci ricordano però quanto ricco ed esigente il testo di Livio sia, e quanto rimanga da studiare e da discutere: nel ritorno a un’opera tanto centrale, e che rivendica con tanta forza la sua centralità, vi è l’occasione per approfondimenti insperati e spesso sorprendenti. La lettura lenta e documentata delle fonti ha ancora molto da dire.

Rendere giustizia a un progetto tanto ambizioso richiederebbe un campo di competenze al quale è difficile anche solo aspirare. La lettura di un progetto come questo è necessariamente selettiva; non discuterò, ad esempio, i contributi di carattere archeologico, fra i quali gli studi di Jacopo Bonetto su Livio e la colonizzazione della Pianura Padana e di Andrea R. Ghiotto sugli aspetti demografici di quel processo meritano quanto meno una menzione per la loro diretta rilevanza rispetto ai dibattiti attuali sull’Italia romana. Occorre però precisare, in limine, come questi due volumi si possano legittimamente accostare come una grande opera di riferimento: molto più di un Companion o di uno Handbook, e piuttosto un quadro della gran parte della ricerca che si è condotta su Livio nell’ultimo quarto di secolo. L’interesse dell’opera va ben oltre i temi, pure molto significativi, su cui si concentrano i singoli contributi o le sezioni in cui sono organizzati. Chi si accingerà a lavorare su un passo di Livio farà bene a consultare gli ottimi indici con cui questi volumi si concludono, e seguire così la traccia delle molte discussioni di dettaglio che vi sono svolte. Il campo di temi e di documenti discussi in questi libri non è affatto esaustivo, ma poche altre opere recenti hanno un’ampiezza di sguardo paragonabile. I curatori non hanno approntato lunghe e articolate introduzioni di carattere metodologico, in cui si tentasse di dare un inquadramento complessivo al progetto e di imporre una coerenza di fondo a volumi tanto ricchi ed eterogenei. Al contrario, hanno lasciato che fossero i due libri ad articolare il loro messaggio: è proprio nella varietà e nella diversità dei loro contenuti che risiede ampia parte della proposta di questi volumi e della loro intrinseca importanza. La struttura stessa delle due raccolte contiene però una chiara indicazione di lavoro: da una prima parte dedicata allo studio di aspetti dell’opera di Livio si passa a una seconda sezione in cui si affrontano problemi di ricezione e di storia degli studi. Non è una scelta scontata.

Il primo volume ha un sottotitolo impegnativo: Un itinerario per gli studi liviani. A una parte iniziale dedicata allo studio di aspetti specifici dell’opera di Livio segue una sezione dedicata alle letture medievali e moderne del nostro autore: forse significativamente, la raccolta si apre con uno studio di Stephen Oakley sulla traversata alpina di Annibale e si chiude con un lavoro di Marta Nezzo sul programma decorativo del Liviano. C’è dunque, nemmeno troppo sottintesa, una proposta di metodo, che viene poi sviluppata anche nel secondo volume. La lettura di Livio non può dirsi completa senza un lavoro serio e approfondito sulla lunga e complessa ricezione dello storico e della sua opera. Comprendere le reazioni che questa ha suscitato può consentirci di orientare meglio le nostre, e di definire più precisamente i nostri interrogativi. Come ricorda Rita Modonutti, citando Berthold Ullmann (p. 238), la conoscenza della vita di Livio è andata perduta come la maggior parte dei suoi libri. Di fronte a una conoscenza così labile e approssimativa del contesto in cui prese forma, rivolgersi ai contesti in cui quell’opera ha giocato un ruolo significativo diventa a sua volta una strategia interpretativa.

La storia della tradizione del testo di Livio nell’età carolingia e ottoniana è fondamentalmente legata all’interesse verso il tema della translatio imperii, come sottolinea Claudia Villa; Rita Modonutti dimostra come la tradizione biografica su Livio che si profila fra Trecento e Quattrocento, da Petrarca a Giovanni Colonna, sino a Sicco Polenton, è attraversata dalla preoccupazione sulla posizione dell’intellettuale rispetto al potere: le speculazioni sulle circostanze che portarono alla distruzione di parte dell’opera di Livio, a partire da un passo della Vita di Caligola di Svetonio, sono fortemente legate a preoccupazioni politiche contemporanee. Una tradizione accusava Gregorio Magno di avere distrutto ben cento libri di Livio: la ricezione della sua opera in ambienti ecclesiastici è però una parte centrale della questione. Si tratta di un campo di studi che richiede un forte profilo tecnico e impone il confronto con l’opera di grandi studiosi: il contributo di Marco Petoletti sulla fortuna di Livio nel Trecento tra Roma e Avignone si misura criticamente con una tesi di Giuseppe Billanovich. All’epoca della cattività avignonese, un lettore come Giovanni Cavallini vedeva nel racconto della fondazione di Roma un forte monito contro l’abbandono della città; nella creazione delle istituzioni sacerdotali di Roma antica si riconosce un modello per il presente. I luoghi hanno un ruolo significativo in questa vicenda intellettuale: Padova è una presenza decisiva nella riflessione di Petrarca su Livio, che genera affinità e precisa la distanza critica; nell’epigrafe sepolcrale del liberto T. Livius Halys proveniente dal monastero di S. Giustina (CIL 5.1.2865) c’è il segno di una continuità intensa e problematica; Carla Maria Monti ne riassume efficacemente i termini, attraverso il punto di vista privilegiato della lettera petrarchesca a Livio (Fam. 24.8). Si profila una tensione non pienamente risolta, fra l’ambizione di storicizzare Livio nel contesto dello sviluppo della cultura letteraria latina e quella di approfondire la sua conoscenza attraverso un incontro diretto. Il problema della presenza di Livio – autore canonico e autore per molti aspetti perduto, al tempo stesso – non si esaurisce mai del tutto, e Padova è il punto di osservazione privilegiato sul problema: lo dimostrano l’affascinante saggio di Alessandra Pattanaro sull’iconografia liviana nel Rinascimento e quello di Giovanni Bianchi sul Livio di Arturo Martini (l’unica ricognizione in campo novecentesco proposta in questi due volumi, oltre allo studio di Marta Nezzo sugli interventi di Gio Ponti al Liviano).

Il Trecento emerge davvero come il momento di svolta nella ricezione di Livio: è anche l’epoca in cui emerge la tradizione dei volgarizzamenti, discussa in un contributo dal forte profilo tecnico di Cosimo Burgassi; il suo ulteriore sviluppo nel Quattrocento è parte integrante del processo che conduce all’intensificarsi della storia editoriale di Livio nell’ultimo quarto del quindicesimo secolo, con ventuno edizioni apparse fra 1469 e 1498, tredici in latino e otto in italiano, francese e castigliano (Giovè Marchioli-Palma, p. 375). In questo sviluppo intellettuale acquisisce particolare rilevanza il compito di illustrare e commentare l’opera di Livio.

Nel secondo volume che qui si discute, Livius noster, questa linea di interessi viene affrontata con particolare attenzione, ponendo in risalto lettori attenti e originali di Livio, che spesso non hanno ricevuto il debito grado di attenzione: il domenicano inglese Nicola Trevet, studiato da Giuliana Crevatin, che lavorò a un’esposizione dell’opera di Livio; al senese Pietro Ragnoni, traduttore e commentatore dell’opera, di cui qui si occupa Lucio Biasiori; a Sperone Speroni, qui discusso in un breve contributo di Franco Biasutti; ad Aldo Manuzio il Giovane, autore di Venticinque discorsi politici sopra Livio (1604); a Pietro Giannone, i cui Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio meritano un posto nello studio della storiografia moderna sulla Repubblica romana, come dimostra Paul van Heck. Machiavelli è dunque una presenza assai meno isolata ed eccezionale di quanto si sia spesso sostenuto: il suo progetto, che in questo volume riceve attente discussioni da parte di Paolo Desideri e di Andrea S. Rossi, si inserisce in un panorama editoriale e scientifico tutt’altro che povero (cf. la citazione da Dionisotti a p. 715). Il tema della ricezione di Livio – delle ricezioni di Livio – si pone con forza e urgenza.

I due volumi non hanno alcuna pretesa di esaustività, ma sollevano al tempo stesso un problema e una proposta di metodo. La lettura di Livio è una parte integrante della cultura storica europea, che va censita sistematicamente: non si tratta soltanto di rileggere con attenzione quanto è già noto, ma individuare più precisamente la traccia del lavoro su Livio in tutta la sua ampiezza, anche battendo strade nuove e riscoprendo o rivalutando testi a lungo trascurati. L’operazione richiede necessariamente un dialogo serrato fra specialisti di ambiti diversi: da questo punto di vista, i due volumi qui presentati sono un modello, ed è significativo che tanti contributi provengano da studiosi dell’Università di Padova, in uno sforzo interdisciplinare davvero notevole, che il Centro di Studi Liviani ha promosso in misura decisiva. Lo stesso approccio si potrà applicare anche a periodi successivi: la ricezione di Livio nella cultura storica e politica dell’Ottocento e del Novecento si potrà condurre con lo stesso approccio e la stessa capacità di assumere un ethos collaborativo. Un forte messaggio di entrambi questi volumi è che un progetto del genere è sia praticabile che auspicabile.

La necessità di porre le nostre letture in un campo largo e complesso di tradizioni intellettuali si pone con forza anche in molti degli studi dedicati all’interpretazione di specifici aspetti dell’opera di Livio. Il contributo con cui si apre A primordio urbis è una magistrale lettura parallela dei due passi di Livio e di Polibio dove si discute l’arrivo di Annibale sulle Alpi, in cui Stephen Oakley si misura con il problema del ruolo che la Quellenforschung ha nella storiografia attuale: per quanto la sua reputazione possa essere meritatamente pessima, rimane un passo necessario quando il testo di un autore e della sua fonte si conservino in misura cospicua. L’operazione non ha soltanto un valore storico, ma consente di definire più precisamente «le caratteristiche generali delle tecniche storiografiche» di un autore (p. 51). Il caso specifico discusso da Oakley conferma e precisa la tesi riproposta da David Levene quasi un quindicennio fa, secondo cui nei libri 21-22 Livio avrebbe usato Polibio come propria fonte principale. La stessa opinione è sostenuta da Craige Champion, autorevole specialista di Polibio, che ha però un giudizio molto diverso sulla qualità dell’uso che Livio fa della sua fonte greca: se per Oakley Livio è autore di riscritture abili e creative, Champion sottolinea il peso di alcuni seri fraintendimenti nell’opera dello storico patavino. Champion nota peraltro un aspetto significativo: l’influenza di Polibio su Livio non passa soltanto attraverso il debito rispetto a vari aspetti di dettaglio, ma si estende ad alcuni temi più generali. La dimensione morale dell’opera di Polibio ha un ruolo significativo, che si riconosce anche in quella di Livio; la preoccupazione per il declino morale delle comunità accomuna i due autori, come anche una tendenza a riconoscere il valore politico della religione, in un atteggiamento che in un altro contesto Champion ha definito «elite instrumentalism».1 Le affinità tematiche sono indubbie: resta da stabilire se si possano spiegare con un debito diretto o con la comune appartenenza a un condiviso fronte di dibattito. C’è poi, a suo giudizio, un altro fronte di affinità: entrambi operarono in un quadro politico rispetto al quale avevano gravi riserve, e scelsero di scrivere storia per trovare un punto di orientamento in quel contesto.

1  Champion, C.B. (2017). The Peace of Gods. Elite Religious Practices in the Middle Roman Republic. Princeton: Princeton University Press.

Più la lettura di Livio si fa dettagliata e precisa, più il testo appare in una prospettiva problematica, che elude definizioni nette o semplici. Vari studi assumono un punto di vista che si richiama esplicitamente alla critica delle fonti: Luca Beltramini sull’assedio di Nova Carthago in Livio e in Polibio, Tommaso Ricchieri sulla caratterizzazione di Flaminino e Catone, Benoît Sans sulle rispettive strategie retoriche di Livio e di Polibio fra Zama e Cinoscefale, Marine Miquel sul rapporto fra storia e verità in Livio e l’emergere della voce autoriale negli AUC, ed Elisa Della Calce sui ritratti dei nemici di Roma nella quarta decade.

Nella sua esigente e complessa analisi della posizione di Pompeo Magno nelle Periochae Luca Fezzi instaura un dialogo fra i sommari, sempre problematici, dei libri dedicati alla tarda Repubblica e la cospicua tradizione letteraria su quel periodo, e restituisce un quadro nel quale l’ammirazione per Pompeo si affianca una forte reticenza rispetto ad alcuni aspetti della sua vicenda politica. È poi suggestiva l’ipotesi secondo cui il libro V, che si misura con il sacco gallico, sarebbe anche una riflessione in filigrana sugli eventi del 49 a.C. e sui limiti della leadership di Pompeo.

Le Periochae emergono in vari momenti come un nodo di grande interesse, su cui c’è spazio per ampi approfondimenti. In un affascinante saggio di commento e di analisi sulla Periocha XLIX, Antonio Pistellato legge la narrazione sullo pseudo-Filippo alla luce del vasto interesse verso impostori e falsi profeti nella storiografia del quarto secolo, sostenendone con argomenti persuasivi un nesso sostanziale con il perduto originale liviano.

Anche quando le fonti parallele non si conservano, peraltro, è possibile un esercizio di lettura ravvicinata che cerchi di individuare gli aspetti di originalità della narrazione proposta da Livio: è il caso della lettura dell’assedio di Locri nel libro XXIX, qui analizzato da Vincenzo Casapulla. Charles Guittard, in un’efficace messa a punto sull’episodio del carmen del 207 a.C. (27.37.7), cerca invece nella tradizione esterna a Livio un possibile frammento del carme, e propone di riconoscere in un frammento di Livio Andronico conservato in Prisciano (F 12 Buechner: sancta puer Saturni filia regina) un passo del carme, che lo storico di Padova (non certo un ammiratore della poesia pre-enniana) scelse invece di non citare.

Lo studio delle «tecniche storiografiche», per tornare all’espressione di Oakley, non può mai venire meno, anche nei contributi dove il punto di interesse principale è l’approfondimento di questioni storiche. La necessità si avverte con ovvia urgenza per lo studio della narrazione su Roma arcaica, in cui la visione storica e politica di Livio si impone con particolare forza, come ricordano, da prospettive diverse, Luigi Garofalo e Marco Rocco. Anche per i periodi successivi, però, la necessità rimane aperta. Lo studio di Francesca Cavaggioni2 sulla legislazione romana nei libri XIX-XXI, che approfondisce molte questioni di storia istituzionale (già svolti in un suo importante contributo a uno dei volumi miscellanei del progetto PAROS), si misura più in generale con la riflessione sulla legge e sulla norma che Livio articola nella sua opera.

2  Cavaggioni, F. (2018). «L’attività deliberativa del senato nell’opera di Tito Livio: note di lettura ad AUC XXI-XXX’». Buongiorno P.; Traina G. (a cura di), Rappresentazione e uso dei ‘senatus consulta’ nelle ‘fonti’ letterarie della Repubblica e del primo Principato. Stuttgart: Franz Steiner Verlag, 259-345.

David Levene torna su un aspetto della guerra annibalica – la responsabilità di Varrone nella sconfitta di Canne – rivedendo criticamente alcuni aspetti del suo studio del 1993 (Religion in Livy. Leiden; Boston: Brill) e dimostrando come la tesi della sua colpevolezza, nettamente affermata a 22.61.14, sia contraddetta, o comunque significativamente qualificata, nello sviluppo della narrazione; a sua volta, quel quadro tanto complesso è parte di un generale scetticismo rispetto alla qualità delle guide politiche e militari, e alla capacità di mantenere coerenza in questo ambito. Le attese del lettore vengono spesso rimodulate e corrette. L’analisi dettagliata di vari momenti della narrazione di Livio dà ulteriormente la misura della complessità del suo progetto, e dell’ampiezza e della varietà delle prospettive che vi sono proposte. Giovanna Todaro dimostra l’importanza della proposta interpretativa che risiede nel ritratto degli Scipioni in Spagna: attraverso la loro vicenda Livio può porre il tema del coinvolgimento di truppe alleate nell’esercito romano e il loro ruolo nella vicenda storica dell’impero mediterraneo.

Qui si pone un’interessante linea di divergenza rispetto a un altro significativo contributo di A primordio urbis. Bernard Mineo, riprendendo un suo studio di un quindicennio fa, sottolinea invece la coerenza del sistema interpretativo sul quale Livio operava, e nel quale fa rientrare una lettura della storia romana entro uno schema di sviluppo che vede in Servio Tullio e Scipione Africano i vertici della storia romana, e in Camillo il rifondatore della città, che pone rimedio a un’epoca di profondo declino; l’età delle guerre civili sarebbe speculare, a sua volta risolto dall’intervento di Augusto. Secondo la lettura di Mineo – dichiaratamente ipotetica, e fondata anzitutto sulla lettura delle Periochae (p. 92) – Livio non ha dunque un atteggiamento pessimistico rispetto alla svolta augustea; la sua opera solleva però un problema di fondo, perché impone una prospettiva fondamentalmente deformante sulla storia di Roma. Arnaldo Marcone torna sulla questione nel quadro di una più ampia discussione sul rapporto fra intellettuali e potere in età augustea, che si misura criticamente con le tesi proposte da Luciano Canfora in Augusto figlio di Dio (Roma-Bari: Laterza, 2015). Pensare a una strumentalizzazione della letteratura da parte del regime è un’ipotesi insufficiente dal punto di vista analitico; la nota di cautela vale anche per Livio, che non si può liquidare al ruolo di «salesman of the regime», attribuitogli da Walsh3 nei primi anni Sessanta. Si ripropone, come è evidente, un problema di fondo: la parte dell’opera di Livio dedicata alla tarda Repubblica non si è conservata. Anche la cronologia interna dell’opera avrebbe un ruolo importante in questa questione: stabilire, ad esempio, se effettivamente la prima pentade sia stata scritta durante la fase finale della guerra civile, o negli anni appena successivi al conflitto avrebbe notevoli conseguenze interpretative.

3  Walsh, P.G. (1961). Livy: His Historical Aims and Methods. Cambridge: Cambdrige University Press, 18.

Approfondire il rapporto di Livio con il suo contesto politico è un compito ingrato, al quale pure è difficile sottrarsi. Si può invece intendere il suo legame con il contesto storiografico, sia romano che ellenistico, su basi ben più solide: lo dimostra Giuseppe Zecchini in un importante contributo, dove viene posta in risalto la dimensione dell’opera di Livio in quanto storia universale: storia universale «di nuova concezione» (p. 127), che ha Roma come centro narrativo e analitico, ed è imperniata intorno all’anno politico e amministrativo romano. La centralità di Roma, in quanto spazio politico e simbolico, è un tema decisivo dell’opera di Livio. Ne dimostra efficacemente la rilevanza Virginia Fabrizi, in un originale saggio che assume come punto di vista il Foro in quanto teatro di lotte armate: in quanto luogo, dunque, di una ripetuta anomalia, in cui saltano i confini tra spazio urbano e spazio esterno: prima nello scontro fra Romani e Sabini, poi in vari passaggi del conflitto fra patrizi e plebei, e infine con l’ingresso dei Galli nel 390 a.C. Livio è uno storico del conflitto, e anche il suo interesse verso il tema della concordia, sul quale pongono l’accento Francesca Cavaggioni e Francesca Cenerini, si spiega con il suo radicamento in un contesto alla fine di una lunga epoca di guerre civili.

Negli ultimi mesi della sua vita Ronald Syme iniziò a progettare un libro intitolato Livy: A Post-War Historian:4 una definizione che poneva lo storico e la sua opera a cavaliere fra due epoche storiche, e ne ribadiva implicitamente l’importanza cardinale nella storia della storiografia romana. I due volumi prodotti dal Centro di Studi Liviani propongono un consuntivo delle linee tendenze principali degli studi dell’ultimo ventennio e, al tempo stesso, una rassegna del potenziale dell’opera come oggetto di indagine. I capitoli sulle Periochae e sulla ricezione degli AUC emergono come nuclei tematici particolarmente forti; è però l’ampiezza complessiva delle proposte e delle prospettive analitiche a imporre questi due volumi come un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia seriamente accostarsi all’opera di Livio. Il messaggio centrale dei due volumi è la necessità di un approccio collaborativo a un’opera tanto ricca ed esigente; in questo spirito il Centro si profila come un ammirevole modello di lavoro e un prezioso catalizzatore di energie.

4  Santangelo, F. (2016). «Editor’s Introduction». Syme, R., Approaching the Roman Revolution: Papers on Republican History. Oxford: Oxford University Press, 1-15 (p. 12).