Sulla virtù attuosa e oziosa in Cicerone

Da un Catone all’altro: dal De republica alle Tusculanae, passando per le epistole

Diomira Gattafoni

Ricercatrice indipendente; Liceo statale «G. Marconi» di Pescara, Italia

Abstract The article is based on some extracts from Cicero’s dialogic and epistolary production, prior to the death of Caesar. It deals with the meaning of ‘virtue’ first in relation to the gestation and publication of De republica, an expression of active virtue; then in relation to the forced idle phase of the Arpinate, dedicated to the activity of translation. The two phases of action and speculation appear to be respectively marked by the models of virtue embodied by the two Catos: on one side the Major, on the other the Uticense. The contrasting consideration of the locality of Tusculum sums up the contradiction. The leitmotiv is therefore virtue, researched, theorised, variously understood and interpreted by Arpinate with the changed political and family conditions.

Keywords Cicero. Virtue. Cato. Dialogues. Otium.

Quam non est facilis virtus! Quam vero difficilis eius diuturna simulatio!

(Cic. Att. 7.1.6)

1 La virtù in Cicerone tra attività politica e speculazione filosofica

La seguente riflessione sarà limitata ad alcuni estratti della produzione ciceroniana precedente all’assassinio di Cesare, intendendo rivolgersi, per iniziare, all’accezione di ‘virtù’, attraverso la gestazione e la pubblicazione del De republica, della cui stesura restano sporadici ma preziosi accenni nelle Epistole ad Attico.1 La imponente testimonianza filosofico-politica dell’Arpinate, inscrivibile, mutatis mutandis, come altre successive (gli Academici libri, il De finibus bonorum et malorum e le Tusculanae disputationes), nel solco della lacerata tradizione platonica, è una delle tante prove dell’attaccamento di Cicerone alla lingua, alla cultura, alle istituzioni romane, nel continuo confronto con quelle di matrice greca.2 Il filo conduttore, come anticipato dal titolo e dalla citazione in esergo, sarà la virtù, ricercata, teorizzata, variamente intesa e interpretata dall’Arpinate con il mutare delle condizioni politiche e familiari.3

1 Per le opere citate di Cicerone si fa riferimento ai seguenti volumi con testo latino a fronte: Di Rienzo 2022; Nenci 2021; Di Spigno 1998; Cavarzere 2016; Marinone 2018.

2 Con l’attributo ‘lacerato’ alludo alle vicende storiche interne e ai contrastanti risvolti filosofici, scettici e dogmatici, che riguardarono l’Accademia post platonica, risvolti del resto testimoniati dagli stessi Academici libri di Cicerone. Cf. Bonazzi 2003.

3 Cf. Giardelli 1934, 14. Commentando Tusc. 5.2.5, P. Giardelli affermava: «Dopo l’esilio dedicò gran parte della sua attività agli studi filosofici senza però tenersi lontano dal foro e dal senato, mentre dal 45‑44 in seguito al trionfo di Cesare, si appartò completamente nella tranquillità della vita privata».

Se nel De republica, pubblicato nel 51 a.C., Cicerone indossa i panni dello statista che rappresenta non lo Stato ideale, ma la nostalgia dello Stato reale e la degenerazione di quello presente, in cui egli è ormai impotente attore, nei dialoghi filosofici del 46‑45 a.C., Cicerone diviene, al contrario, obtorto collo, spettatore e teorico dell’otium. La morte dell’amata Tullia e, dunque, l’esigenza di aliquod adminiculum, in aggiunta all’intricata situazione della cosa pubblica, avrebbe condotto l’oratore a cercare rifugio nella sola speculazione filosofica e, in qualche modo, a contraddirsi rispetto a quanto affermato ed attuato in altri tempi. Soprattutto dal febbraio del 45 a.C., quando la prediletta Tullia muore a trentatré anni dopo circa un mese dal parto, e per i mesi a venire, Cicerone fa annegare nella traduzione filosofica i propri dispiaceri intimi e politici.4 Mutando le attese e le priorità, anche l’accezione ciceroniana di ‘virtù’ muta, virando, dalla operosità romanamente intesa, verso la ricerca e la definizione teorica di quella, che lo stesso autore ammette non essere facile, in tutti i sensi.5 Un’ulteriore testimonianza di tale metamorfosi interiore ed esteriore è racchiusa nell’epistolario indirizzato all’amico ed editore Attico, che soprattutto per il 45 a.C. attesta una frenetica attività traduttiva, figlia del lutto personale oltre che, ormai inesorabilmente, politico.6

4 I postumi del lutto sono testimoniati sia nelle Familiari che nelle Epistole ad Attico. Cf. Cic. fam. 9.11 a Dolabella e Cic. Att. 12.40.2‑3. Cf. Kennedy 2010, 5: «The degree to which Cicero had been affected by the loss of his daughter offended the sensibilities of numerous Romans who were beginning to question the reason for his absence from Rome. […] He received warnings from Atticus that people were beginning to speak about his noticeable and lenghty retirement in his villa. Cicero felt obliged to respond to this. […] In response to Tullia’s death, he wrote the Consolatio mostly for himself and his return to philosophy was to help assuage his grief».

5 Cic. Att. 7.1.6. Di Spigno 1998, 580‑3.

6 Riguardo allo strazio per la morte di Tullia e alla Consolatio, poi in gran parte confluita nelle Tusculanae, cf. Kennedy 2010, 5: «His new position and all this activity was driven away in the following year by the death of his daughter Tullia. In April of 45 B.C., only one month before Cicero wrote his Consolatio whose material formed so much of the foundation of the Tusc. we read Servius’ gentle chastisement during Cicero’s deepest period of mourning, noli committere, ut quisquam te putet non tam filiam quam rei publicae tempora et aliorum victoriam lugere [fam. 4.5]. How else can we understand this phrase except that Cicero had placed politics far beneath his own personal grief?».

1.1 La sostanziale avversione per l’otium

Secondo questa prospettiva (non propriamente in linea con quella di Manenti)7 appare inconsistente l’interpretazione di Bragova in chiave sociale (e non esclusivamente politica) della ricorrente locuzione cum dignitate otium degli anni successivi all’esilio di Cicerone e, in particolare, quella di Cic. De orat. 1.1, in base alla quale dignitas e periculum sarebbero termini contrapposti inconciliabili:

7 Sul ciceroniano ‘temporibus adsentiendum’ cf. Manenti 2007.

If we carefully look at the opposition in negotio sine periculo versus in otio cum dignitate, we understand that dignitas is opposed to periculum, therefore the concept cum dignitate otium signifies ‘peaceful leisure full of studies in absence of danger’ having no political sense.8

8 Bragova 2016, 479. Cf. Boyancé 1941. Cf. Grilli 2002, 202.

Più suggestiva, ma non meno azzardata, è l’ipotesi di Hanchey sull’ozio in Cicerone da intendersi come «atemporal space», indistintamente dalle orazioni ai dialoghi:

Cicero’s otium reflects a republic at peace through the efforts of excellent individuals. And these individuals, by maintaining the republic of their ancestors, earn personal dignitas and preserve an arena for others to do the same. […] Cicero’s reconfiguration of otium as space instead of time is again most evident in his repeated use of the phrase otium cum dignitate. Each time he uses the phrase he appeals to a schema of spatial representation, using a metaphor of travel along a path towards otium as the ultimate destination.9

9 Hanchey (2013, 182; 195).

Almeno negli anni del De oratore e del De republica, per Cicerone la dignitas sembra essere infatti ancora tutta nel pericolo affrontato, non nella quiete personale o nell’assenza di rischi.10 Negli anni precedenti al 46 a.C. e anche oltre, l’Arpinate si esprime similmente anche nelle Epistole.11 In Att. 14.13, 4 del 26 aprile 44 a.C., confessa all’amico:

10 Vedi infra l’accezione negativa conferita prima del 45 a.C. alla località di Tuscolo.

11 Vedi infra.

Se parto, come avevo deciso, in qualità di legato, alla volta della Grecia, ho l’impressione di poter evitare in qualche misura il pericolo della carneficina che incombe, ma vengo a trovarmi nella condizione di incorrere in una certa forma di biasimo, perché faccio mancare il mio appoggio allo Stato repubblicano in circostanze tanto gravi. Se, invece, resterò, vedo che mi troverò sì nel pericolo, ma suppongo che possa darsi il caso che io riesca a giovare alla Repubblica.12

12 Cic. Att. 14.13.4. Di Spigno 1998, 1306‑7.

Il disprezzo per la tranquillità fine a sé stessa, senza un contributo attivo alla collettività, spiegherebbe anche l’inveterata, inestirpabile avversione per la filosofia epicurea, ravvisabile anche nelle opere filosofiche del 45 a.C.13

13 Vedi infra. Riguardo all’etimologia di otium e al suo significato per Cicerone, cf. André 1962, 5‑25, spec. 12‑13: «L’histoire de l’otium dans la génération cicéronienne est celle d’un combat pour donner au mot un sens et un contenu positifs, satisfaisants pour peuple féru d’industria et d’efficacité. […] Cicéron a reçu de la tradition ancestrale un otium en grande partie négatif». Riguardo alla filosofia epicurea vedi infra.

2 La scelta del mare agitato della politica

A proposito della preliminare concezione di ‘virtù’, non si può tralasciare il proemio acefalo dell’opera di più evidente matrice platonica, non utopica ma nostalgica delle istituzioni romane, la cui grandezza è incarnata dai protagonisti del trionfo sulla potenza punica. In Att. 4.14, epistola del maggio del 54 a.C., Cicerone chiede ad Attico di mettergli a disposizione i suoi libri nella casa di Roma e soprattutto quelli di Varrone, adducendo tale ragione: «Mi è infatti indispensabile utilizzare alcuni dati, offerti da questi libri, per l’opera che ho per le mani».14 Come precisato in Att. 4.16, tale opera in fieri è il De republica, che, per quanto idealmente ispirato all’omonimo dialogo platonico, è concepito e strutturato come gli scritti essoterici aristotelici e, dunque, dotato di più proemi, «un disegno di vasta portata e che richiede molto tempo libero da dedicarvi».15 Nel presentare a grandi linee l’opus magnum, Cicerone, di certo non per caso, nomina il plurimum otium necessario a tale impresa, aggiungendo di non disporne affatto (Rem enim, quod te non fugit, magnam complexus sum et plurimi oti, quo ego maxime egeo).16

14 Di Spigno 1998, 386‑7.

15 Di Spigno 1998, 390‑1.

16 Di Spigno 1998, 390‑1.

Perfettamente in linea con la disposizione emergente nelle Epistole ad Attico coeve alla composizione dell’opera, nell’incipit polemico del De republica, «un protrettico alla vita attiva»,17 spicca il personaggio di Marco Porcio Catone, la cui caratura morale è riassunta come segue:

17 Grilli 1971, 15. Cf. Grilli 1971, 19: «Nel de re publica traccia invece il quadro di quello che oggi pare un ideale, mentre solo due generazioni prima era realtà».

E certo M. Catone, uomo di origine plebea e nuovo alle cariche pubbliche, lui, che rappresenta per tutti noi che coltiviamo le medesime aspirazioni una guida, una sorta di modello che ci indirizza alla vita attiva e alla virtù, avrebbe potuto dilettarsi nell’ozio a Tuscolo, luogo ameno e vicino a Roma. Invece, da stolto, come lo definiscono costoro, non costretto da alcuna necessità, preferì fino all’estrema vecchiaia essere sballottato in mezzo alle onde tempestose di questa nostra vita politica, piuttosto che vivere beatamente nella serenità del suo ritiro.18

18 Cic. rep. 1.1. Nenci 2021, 241‑3.

La partecipazione emotiva dell’autore si palesa non solo dal merito dell’enunciato, ma anche dalla contrapposizione dei dimostrativi in his undis et tempestatibus e in illa tranquillitate atque otio: la scelta del mare in tempesta contraddistingue lo stesso Cicerone, avvezzo al rischio dell’esposizione della vita politica.19

19 Sulla connotazione estetica etica e politica del mare in Cicerone cf. Pagnotta 2019, che tuttavia, per l’accezione etico-politica, prende in esame per lo più luoghi delle orazioni (Pro Milone, Pro Sestio) e rep. 1.45. Lo studioso conclude così la relativa sezione: «Si può dunque dire che è nella dimensione politica che l’immagine del mare, utilizzata in chiave metaforica, si appropria nell’opera di Cicerone della sua componente di locus horridus aperto quindi all’incertezza a causa della sempre potenziale instabilità e irrazionalità del popolo e dei rivolgimenti politici rappresentati dai flutti del mare tempestoso» Pagnotta 2019, 108.

Contro la deduzione più semplice ed ovvia, Alberto Grilli, nel lavoro dedicato ai proemi del De republica, sostiene che ad essere presi di mira dall’Arpinate non siano i soli epicurei, ma, «gli avversari del βίος πολιτικός […] gruppo per gruppo», quindi anche gli stoici e Teofrasto e i suoi.20 Lo studioso, a proposito della declinazione squisitamente romana di industria e, massimamente, di salus rei publicae, prerogative salde nelle azioni di Catone, aggiunge:

20 Grilli 1971, 18. Cf. Grilli 2002, 198: «Anche nel De republica ciceroniano solo i due paneziani ferventi, Scipione Emiliano e Tuberone, sono propensi a una maggiore contemplatività della vita […]. Lelio tende invece a limitare la speculazione entro quei limiti che possano dare dei risultati pratici».

mentre non si dà virtus senza industria, si pone un’immediata antitesi tra l’industria e l’inertia o la desidia, che nel semplice virtus non verrebbe in luce.

E

[Salus rei publiccae o salus populi] viene qui a sostituire quello comune nella politica e nella filosofia greca, specie prearistotelica, di κοινωνία.21

21 Grilli 1971, 22‑3.

Restando nel merito della polemica anti-epicurea di Cicerone, Grilli chiarisce:

siccome la virtù ha da essere intesa in usu sui e quest’usus consiste soprattutto nella civitatis gubernatio, nella realtà pratica della buona costituzione, anche i filosofi del βίος σχολαστικός, che si sono limitati a predicare, ma in sostanza hanno o limitato o escluso col loro esempio l’attività politica, sono inferiori ai legislatori, come la potenza è inferiore all’atto.22

22 Grilli 1971, 102. Per la ricorrente polemica anti-epicurea cf. Fin. 3.2‑3, Ac. 1.2.

2.1 L’allegoria della nave

Il fortunato topos di provenienza alcaica in his undis et tempestatibus si ripete, con tinte diverse, anche nelle Epistole, sia in quelle ad Attico che nelle Familiari.23 In una del 59 a.C., Att. 2.7, che profetizza l’imminente esilio oltremare, Cicerone, dopo aver rassicurato l’amico sul «desiderio di partecipare attivamente alla vita politica», spiega:

23 S’intende l’allegoria della nave del fr. 208a Voigt. Cf. Catenacci 2019, 65: «In questa ode come in un’altra superstite (fr. 6 Voigt), l’allegoria della nave sembra dunque descrivere con appropriatezza la fase in cui Alceo e i suoi cercano senza successo di opporsi all’inattesa alleanza tra Mirsilo e Pittaco, mentre altri due carmi, nei quali la nave è ormai alla deriva e il tono di scoramento prevale, sembrano sviluppare la stessa trama allegorica per sviluppare le disavventure successive all’esilio. Tutta la descrizione della tempesta si snoda attraverso una precisa rispondenza tra fatti storici ed elementi figurati». Riguardo all’allegoria in Cicerone, cf. Brock 2013, 62: «It seems to establish itself only slowly in Latin literature, but the frequency in Cicero of the image of the gubernator, the Latin helmsman, and of the shipwreck (naufragium) of the Roman republic, attests to its continuing appeal, and it is doubtless through Cicero‘s influence that it continues into postclassical literature and so comes down to us».

Già da un pezzo avevo a noia di reggere il timone, anche quando potevo farlo; ora poi che sono costretto a lasciare la nave, non perché sia stato io ad abbandonare il timone, ma perché me lo hanno strappato, sento il desiderio di stare a guardare dalla terraferma il naufragio di questa gentaglia, desidero, come Sofocle, che ti è tanto caro,

al riparo di un tetto

ascoltare il ticchettìo fitto della pioggia col cuore in pace.24

24 Di Spigno 1998, 196‑19. Fr. 636 Pearson forse appartenente a I suonatori di Timpani.

Alla scelta delle acque agitate della vita sacrificata al bene pubblico, ribadita anche attraverso il De republica, Cicerone avrebbe successivamente sostituito l’immagine salvifica del porto, nella tranquillità del quale per esempio avrebbe sostenuto trovarsi Varrone, amico-rivale della scena politica e letteraria:

Io ti ho sempre considerato un grand’uomo; e tanto più ora che in mezzo a tali tempeste sei quasi il solo in porto, e cogli i frutti più preziosi della tua cultura, dedicando i tuoi pensieri e le tue energie a quegli studi la cui utilità e il cui godimento sono infinitamente superiori a tutti i divertimenti e a tutti i piaceri di questa gente. Ecco perché io ritengo che questi tuoi giorni di Tuscolo valgano una vita intera; e volentieri lascerei agli altri le mie ricchezze e il mio potere pur di vivere una vita come questa tua, libera da ogni condizionamento esterno.25

25 Cic. fam. 9.6.4. Cavarzere 2016, 872‑3. Cf. Astbury 1967, 406‑7 sulla fase precedente del rapporto tra Varrone e Cicerone in relazione a Pompeo.

Nel capitolo intitolato Cicero and Varro, dalle Familiari dedicate al Reatino, Wiseman ravvisa una sostanziale sintonia, legata ad un simile destino dei due pompeiani dopo Farsalo, sintonia – a suo dire – consacrata dalla dedica degli Academici libri a Varrone, nell’estate del 45 a.C.:

As prominent Pompeiani, both Cicero and Varro had been in uneasy exile from Rome for well over a year after the battle of Pharsalus. Pardoned eventually by Caesar, they returned cautiously to their villas, Cicero in October 47, Varro probably in January 46. […] The constant use of the first-person plural indicates the nature of the relationship. Here, surely, are two men who saw eye to eye on everything important, in life, literature, politics.26

26 Cf. Wiseman 2009, 107‑9.

I Tuscolaniensis dies del Reatino – che, in verità, da quel che si evince dalle Epistole ad Attico, illo tempore avrebbe voluto prender parte al De republica come personaggio vivente – si collocano agli antipodi di quanto sostenuto nel proemio dello stesso dialogo, in relazione alla virtù attuosa di M.P. Catone: durante la stesura del dialogo politico, la località di Tuscolo, quasi antonomasia dell’ozio, è come tale moralmente scartata da Cicerone.27 L’Arpinate accenna alla composizione del De republica in un paio di lettere del 54 a.C. rivolte ad Attico; nell’epistola del I luglio, si giustifica con l’editore per non avervi collocato Varrone.28 Nell’epistola Att. 4.19 del novembre dello stesso anno, Cicerone, ricorrendo all’ironia, chiede provocatoriamente all’editore di dare piuttosto uno sguardo da vicino all’«autentica Repubblica»:

27 Cf. supra.

28 Cic. Att. 4.16.2. Cf. Di Spigno 1998, 389: «Varrone, del quale mi scrivi, figurerà come personaggio in qualche punto della mia opera, se solamente ci sarà un passo in cui includerlo. Ma tu sai bene quale struttura hanno i miei dialoghi». Varrone avrebbe invece ricevuto l’onore-onere della dedica dei quattro Academici libri nell’estate del 45 a.C.

Perché invece non ti precipiti qua e non vieni a vedere i gusci vuoti della nostra gloriosa e autentica Repubblica? Fatti un’idea con i tuoi stessi occhi del denaro distribuito prima delle elezioni tribù per tribù, in uno stesso luogo e al cospetto di tutti, non perderti lo spettacolo di Gabinio assolto, vieni a sentire l’odore della dittatura, goditi la sospensione dell’attività giudiziaria e la sfrenatezza che dilaga in tutti i settori; afferra con un colpo d’occhio il perfetto equilibrio del mio spirito, lo spasso che mi sto prendendo, la mia noncuranza sovrana per il tasso d’interesse del 10% a cui si è soggetti con Selicio, nonché, ci tengo a dirlo!, le piacevolissime relazioni di amicizia che ho instaurato con Cesare. Manco a farlo apposta, questa unica tavola di salvezza che emerge dal presente naufragio mi dà un po’ di soddisfazione. Sulla fede degli dèi!29

29 Cic. Att. 4.19. Cf. Di Spigno 1998, 416‑19.

L’allegoria della nave in balia della tempesta si ridefinisce come vero e proprio naufragio della cosa pubblica, attraverso l’inedita considerazione di Cesare, divenuto in tale situazione addirittura un salvagente (haec enim me una ex hoc naufragio tabula delectat).

In una lettera particolarmente estesa, datata 20 febbraio del 50 a.C., ricorrendo all’usuale tecnica ad intarsio, Cicerone citando (in greco) il frammento 918 Nauck di Euripide, nomina espressamente i libri del De republica (praesertim cum sex libris tamquam praedibus):

Pertanto, si arrabbi pure chi lo vorrà; pazientemente subirò. «Tanto il bene dimora in me», visto soprattutto che sono stato proprio io ad impegnarmi in tal senso con sei libri assunti, starei per dire, a garanti del mio obbligo verso lo Stato. Mi rallegro al pensiero che essi riscuotono la tua piena approvazione.30

30 Cic. Att. 4.1.8. Cf. Di Spigno 1998, 516‑17.

Il sostantivo praes, nel varroniano De lingua latina, è spiegato nei seguenti termini: praedia dicta, item ut praedes, a praestando, quod ea pignore data publice mancupis fidem praestent.31 Nelle intenzioni dell’autore, i sei libri del De republica valgono dunque da veri e propri testimoni della propria abnegazione nei confronti dello Stato. Nel proemio del dialogo, l’Arpinate del resto non tralascia dettagli sulla propria esperienza biografica, compresa quella dell’esilio, distinta dai viaggi intrapresi da altri per conoscenza.32

31 Varro, L.L. 5.40. Cf. Kent 1951, 36‑9: «Praedia, ‘estates’ are named, as also praedes ‘bondsmen’, from praestare ‘to offer as security’, because these, when given as pledge to the official authorities, praestent ‘guarantee’ the good faith of the party in the case».

32 Cic. rep. 1.3. Nenci 2021, 248‑9. Il periodo presenta un’integrazione di Pohlenz per la mancanza dell’ultimo foglio del III quaternione.

Nell’elogio della virtù che compie la sezione dedicata a Catone il vecchio, «cui è attribuito anche nel De senectute un atteggiamento antiepicureo»,33 Cicerone chiosa con:

33 Grilli 1971, 20.

Mi limito solo ad affermare che così forte è il vincolo che per natura lega il genere umano alla virtù e così grande l’amore per la difesa della comune salute che tale forza vince tutti gli allettamenti del piacere e dell’ozio. Ma possedere la virtù come un’arte non basta, se non ne fai uso; se un’arte, anche quando non la eserciti, può essere posseduta per se stessa come conoscenza teorica, la virtù invece consiste tutta nell’uso di sé; e l’uso più grande è il governo dello Stato e la realizzazione di fatto e non a parole, proprio di quelle teorie che costoro vanno proclamando nei cantucci delle loro scuole.34

34 Cic. rep. 1.1‑2. Nenci 2021, 242‑3.

Riguardo alla polemica anti-epicurea nel De republica, Grilli sostiene che essa:

nasce dal fondo della personalità di Cicerone, sia umana, sia politica: avversione di vecchia data, che tutti i suoi maestri di filosofia, stoici e accademici, dovevano avergli instillato, ma che il suo animo d’onesto e integro provinciale doveva aver assorbito con caldo consenso; essere epicureo è per lui in sostanza non essere romano.35

35 Grilli 1971, 24. Sull’avversione mostrata nei confronti dell’epicureismo, cf. Hanchey 2023, 37‑54: «The Epicureans are a philosophical target, to be sure, in the traditional sense: Cicero takes aim at their philosophy at length in On Ends and On the Nature of the Gods especially. But they are also a philosophical target in the context of the republicanized philosophy of Cicero because they represent an anti-republican ideology (the celebration of self-interest) and methodology (the quantification and measuring of all things, often by utilitarian criteria). They play the role of villain in both capacities in Cicero’s dialogues, and, with his rhetorical circumlocutions, Cicero repeatedly represents them as posing a grave threat to republican value». Sulla critica anti-epicurea nel De finibus, cf. Karamanolis 2020, 152: «Cicero also criticizes the role that virtue plays in Epicurean ethics. In Cicero’s view, the Epicureans are mistaken in making virtue instrumental to obtaining pleasure. This position, Cicero argues, cannot be right for two main reasons: first, because man is essentially rational and it must be reason that should determine the human highest end, not the senses, as the Epicureans claim; and reason suggests that we should always act according to virtue, which is a form of reason (fin. 2.36‑43); if the Epicurean position is right, then we share the same highest good with the animals (fin. 2.110 f.), and this is impossible; second, because the Epicureans themselves appear to prioritize virtue, not pleasure, when they speak or when they act as individuals and, especially, as Roman citizens, which then contradicts their own ethical theory, which prioritizes pleasure (fin. 2.50‑75)».

A sostegno di quanto evidenziato attraverso l’esempio di Catone e, successivamente, in termini generali, Cicerone nomina quindi espressamente il proprio fattivo contributo, ricorrendo ancora una volta al topos della tempesta:

Io infatti ero stato uno che, pur potendo ricavare dalle scelte del proprio tempo libero risultati più grandi degli altri grazie alla dolcezza e alla varietà degli studi in cui avevo passato la vita fin dalla più giovane età, o potendo, nel caso di eventi più gravi per tutti quanti, affrontare una sorte non diversa, ma uguale a quella degli altri, non esitai ad andare incontro alle più gravi tempeste e direi agli stessi fulmini per salvare i miei concittadini, e, con mio personale pericolo, ad assicurare a tutti la tranquillità della vita come bene comune.36

36 Cic. rep. 1.4. Nenci 2021, 250‑1.

La scelta della vita attiva continua ad essere suffragata attraverso l’inconsistenza logica dell’exceptio epicurea, con un’ulteriore immagine della nave scossa dalle onde:37

37 Secondo tale exceptio, il saggio epicureo avrebbe partecipato alla vita politica in situazioni estremamente delicate per lo stato.

E nelle dispute dei maestri di filosofia suscita il mio stupore soprattutto il fatto che chi afferma di non poter governare la nave con il mare tranquillo, per non averlo imparato né mai essersi dato cura di saperlo, per altro assicuri che prenderà nelle sue mani il timone quando infuriano onde tempestose.38

38 Cic. rep. 1.6. Nenci 2021, 254‑5.

3 La virtù forzatamente oziosa

Lo strale nei confronti degli epicurei, qualche anno dopo, si sarebbe però ritorto contro il mittente, costretto a ripiegare sulla virtù, intesa proprio come un’arte meramente posseduta (ciò almeno nell’accezione più ovvia) e non più esercitata a favore dello Stato.39 In fam. 9.3, epistola risalente alle settimane successive alla battaglia di Tapso, cercando rifugio nello studio, nella filosofia e nell’esempio di Varrone, Cicerone si rivolge al Reatino, chiedendogli se sia il caso di allontanarsi da Roma per raggiungere Cuma hoc tanto incendio civitatis («mentre una tale conflagrazione sta devastando lo stato»).40 L’Arpinate prosegue chiarendo al sodale-rivale:

39 Riguardo a coloro che in angulis personant, cf. Nenci 2021, 242 ad loc. 11. Grilli ritiene che tale espressione ricalchi quella presente nel Gorgia di Platone (Gorg. 485d). Cf. Grilli 1971, 51‑71: «Evidentemente l’espressione ha avuto fortuna, tanto fortuna da evolversi a un certo momento in modo di dire, quasi motto nella lotta contro ogni forma di contemplatività».

40 Cic. fam. 9.3. Cavarzere 2016, 862‑3.

Daremo materia di chiacchiere a quanti non sanno che noi, in qualunque luogo ci troviamo, manteniamo sempre lo stesso stile e lo stesso tenore di vita. Ma che importa? Finiremo comunque in pasto alle chiacchiere. Tutti, al giorno d’oggi, si avvoltolano in ogni sorta di delitti e di scandali; eppure, dobbiamo essere noi a fare ogni sforzo per evitare che il nostro ritiro, in noi stessi o tra noi, s’attiri le critiche della gente! […] Tuttavia, i nostri studi, non so come, sembrano dare oggi frutti più abbondanti che un tempo; forse perché in nessun’altra attività riusciamo a trovare sollievo, o forse perché è la stessa gravità del male che ci fa sentire il bisogno di una medicina e ce ne offre una di cui non sentivamo l’efficacia quando eravamo in salute.41

41 Cic. fam. 9.3. Cavarzere 2016, 862‑3.

Lo studio e il ritiro dunque, nell’aprile 46 a.C., fungono da farmaco necessario. In fam. 9.4, lettera di fine maggio dello stesso anno, sempre a Varrone, Cicerone sintetizza quanto già esternato prima: «Se poi la tua biblioteca è ben fornita, non ci mancherà proprio nulla».42 Il motivo delle critiche riappare in fam. 9.5: «Ma quello che non mi va proprio giù è la critica di chi non ha fatto nulla».43 È però solo nella già citata fam. 9.6 del giugno 46 a.C. che Cicerone chiarisce all’interlocutore e a sé stesso come vada intesa la nuova condizione dell’ozio forzato, almeno foriera del ritrovato piacere letterario:

42 Cic. fam. 9.4. Cavarzere 2016, 864‑5.

43 Cic. fam. 9.5. Cavarzere 2016, 866‑7.

E chi, in effetti, visto che la nostra patria non può o non vuole ricorrere ai nostri servizi, potrebbe rifiutarmi di ritornare a quella vita che molti dotti, forse a torto ma certamente in gran numero, hanno ritenuto preferibile addirittura alla vita politica? Se dunque questi studi, a giudizio di grandi uomini di pensiero, giustificano una sorta di sospensione dell’attività politica, perché non ne dovremmo approfittare ora che è lo stato che ce lo concede?44

44 Cic. fam. 9.6.5. Cavarzere 2016, 872‑3.

Quanto moralmente respinto nel proemio polemico del De republica è qui attenuato ricorrendo ad una litote con fortasse non recte: tra i molti uomini dotti che «forse a torto» giustificano tale vacatio dall’attività politica vanno annoverati non solo gli epicurei, ma anche Teofrasto e alcuni stoici.45 Nell’epistola fam. 9.7, l’Arpinate si spinge oltre, confessando a Varrone: «E così non la smetto di andare a cena da questi che ora comandano. E che dovrei fare? Bisogna pur adattarsi alle circostanze».46 L’espressione tempori serviendum est sembra riassumere il nuovo scarto tra ideale e reale, decisamente più tragico di quello presente al tempo della composizione del De republica. Il precipitare della situazione politica dopo l’assassinio di Cesare determina invece nell’Arpinate un atteggiamento consapevolmente stoico. In Att. 14.13, ricorrendo all’intarsio, Cicerone si dà coraggio citando e rifunzionalizzando i versi di Il. 5.428‑9, aggiungendo:47

45 Sulla polemica fra Teofrasto e Dicearco in relazione a isti in angulis personant, cf. Grilli 1971, 51‑5, speciatim 53 ad loc. 13.

46 Cic. fam. 9.7. Cavarzere 2016, 874‑5. Su Cicerone, Varrone e Claudio Marcello cf. Fantham 1977.

47 Cic. Att. 14.13.3. Di Spigno 1998, 1304‑5. I versi (nei quali Cicerone sostituisce γάμοιο con λόγοιο) riportano: «Creatura mia, a te non sono state date azioni di guerra, | ma tu occupati delle opere desiderabili della parola».

Ma sia la sorte a decidere su questo, essa che in tali situazioni ha maggior potere della razionalità. Noi, invece, occupiamoci di ciò che deve risiedere in noi stessi, affinché, qualunque cosa accada, la sopportiamo coraggiosamente e saggiamente e ci rammentiamo che è capitata a noi in quanto uomini; orsù! divengano per noi motivo di conforto, come in notevole misura gli studi letterari, così anche in non minima parte le Idi di marzo.48

48 Cic. Att. 14.13.3. Di Spigno 1998, 1304‑5. L’estratto presenta una connotazione spiccatamente stoica. Cf. Hadot 2006.

Nella stessa epistola, profeticamente, a proposito dello «Stato repubblicano ridotto male o, per esser più precisi, addirittura inesistente (nullam potius rem publicam)», Cicerone finisce per ammettere: «talvolta sembra che si debba rimpiangere Cesare».49

49 Cic. Att. 14.13.5. Di Spigno 1998, 1306‑7.

3.1 La superiorità della virtù attuosa

A compendio dei precedenti argomenti e a suggello del proemio del I libro del De republica, annoverati i sette sapienti vissuti in media re publica, cioè occupandosi delle questioni del governo, Cicerone conclude: «E infatti non c’è nessuna impresa in cui la virtù umana si avvicini di più alla grandezza degli dèi che fondare nuovi stati o salvaguardare quelli già fondati».50 Nel proemio del III libro, per chi intenda acquisire la gloria, accanto all’azione si prospetta lo studio, come è valso per Scipione, per Lelio per Filo. L’autore infatti domanda retoricamente: «che cosa ci può essere di più nobile quando l’esercizio e l’esperienza di grandi fatti si congiungono con lo studio e la conoscenza delle teorie politiche?».51 La compresenza delle due attitudini è lodevole e foriera di fama, ma a prevalere, in caso di scelta, è ancora l’attività politica:

50 Cic. rep. 1.7. Nenci 2021, 256‑7.

51 Cic. rep. 3.3. Nenci 2021, 438‑9.

Se invece si dovesse scegliere o l’una o l’altra delle due vie che conducono alla saggezza, anche se a qualcuno sembrerà più felice il modo di vivere quieto immerso negli studi delle discipline più nobili, certo è più degna di lode e comporta maggior gloria la vita politica, da cui traggono onore gli uomini più grandi.52

52 Cic. rep. 3.3. Nenci 2021, 438‑9.

Tale prospettiva (e quella del De republica in generale) sembra in parte convergere con quanto sostenuto nella sezione dell’etica dalla maschera di Varrone, portavoce di Antioco di Ascalona, nell’omonimo dialogo filosofico degli Academici libri, cucito da Cicerone sul Reatino nell’arco di qualche giorno, nell’estate del 45 a.C., sulla base del Lucullus (Academica priora):

Infatti, la virtù si dispiega attraverso i beni dell’animo e del corpo, e in alcuni beni che si accompagnano non tanto alla natura, quanto alla vita beata. Consideravano l’uomo, per così dire, parte di una cittadinanza e dell’intero genere umano, congiunto ad altri uomini da un certo qual sodalizio umano.53

53 Cic. Ac. 1.21. Di Rienzo 2022, 78‑9. Cf. fin. 5.66. Cf. Reinhardt (2023a, 154‑7 spec. 155): «In this passage the ‘transition to ethics to politics’ is made plain […]. Man’s social nature is not touched on in Luc. 132‑4, where Cicero draws attention to aspects of Antiochus’ ethics deemed to be inconsistent with his Stoicism, which Cicero makes a point of emphasizing, perhaps because what Varro says here also resonates with the Stoic conception of κοσμóπολις to which all human beings belong».

La sintesi tra platonismo e aristotelismo, perseguita dall’allievo di Filone di Larissa, nell’ambito della cosiddetta Quinta Accademia, s’inscrive tuttavia in un contesto, quello ciceroniano, non solo polemico nei riguardi delle teorie degli ultimi accademici, ma velatamente polemico anche nei confronti di Varrone.54 Per soddisfare, almeno parzialmente, le aspettative di quest’ultimo, zelante dedicatario dell’opera, Cicerone, rispetto a quanto fatto nella prima edizione, muta l’ordine di trattazione delle tre parti della filosofia, divenute poi canoniche, anteponendo l’etica alla logica e alla fisica. Tuttavia, anche nella prima edizione, a preliminare conferma della posizione dogmatica del maestro Antioco, Lucullo, per avvalorare la teoria della comprensione, ricorre all’argomento della cognitio virtutum, asserendo: «La conoscenza delle virtù, soprattutto, è una prova del fatto che molti aspetti della realtà possono essere percepiti e compresi».55 La sezione dell’etica trova maggior spazio nella trattazione, oltre che assoluta priorità, nel Varro. Nel capitolo introduttivo del lavoro dedicato al De Repubblica, Grilli cita a sostegno della tesi del primo proemio un passo sulla virtù, attribuito nel Varro a Varrone-Antioco:56

54 Si approfondisce quest’ultimo aspetto in un altro articolo (in preparazione).

55 Cic. Ac. 2.23. Di Rienzo 2022, 128‑9. Cf. Reinhardt 2023a, 376‑80: «Presentationally, the passage combines considerations which point to the doctrinal indispensability of the cataleptic impression with the citation of widely held opinions about the subjects under discussion which dovetail with Stoic doctrine».

56 Cf. Grilli 1971, 24.

In base a questa tripartizione […] nasceva il rifiuto dell’inoperosità e il disprezzo dei piaceri da cui discende la capacità di sopportare numerosi e gravi dolori e fatiche per conseguire il giusto e il bello morale.57

57 Cic. Ac. 1.23. Di Rienzo 2022, 78‑9. Cf. Reinhardt 2023a, 161: «This lists of choices and avoidances arising from the commitment to the end ascribed to the veteres anticipates the objection that the addition of the prima naturae to the simple and of virtue opens the door to hedonism».

Gli Academici libri, per ragioni materiali, non danno conto della posizione perorata da Cicerone.58 Va tuttavia rilevato che l’autore, nel dialogo accademico e altrove, ricordi di esser stato egli stesso discepolo di Antioco, il quale lo avrebbe spronato nella direzione della vita politica. Chi scrive ritiene che la citazione, per quanto in linea con lo spirito del Dialogo, sia e debba ritenersi attagliata al personaggio di Varrone e che dunque essa non possa essere ricondotta al punto di vista di Cicerone, conduttore del Varro e, nello stesso, antagonista di Varrone-Antioco.59 A sostegno della curvatura varroniana del passo, si presta il resoconto presente nel successivo De civitate dei di Agostino:

58 Grilli sembra convinto del contrario. Vedi Grilli 1971, 45‑7.

59 Nei testimoni, il contenuto del Varro è pressoché limitato all’esposizione di Varrone-Antioco, al termine della quale è solo intrapreso il discorso vincente di Cicerone relativo alla Nuova Accademia. Nel Dialogo, Attico compare come personaggio sostanzialmente muto, al quale è attribuita qualche battuta di transizione.

Ex tribus porro illis vitae generibus, otioso, actuoso et quod ex utroque conpositum est, hoc tertium sibi placere adseverant: haec sensisse atque docuisse Academicos veteres Varro adserit, auctore Antiocho.60

60 Aug. civ. d. 19.3.

4 Tra otium e βίος σύνθετος nei dialoghi del 45 a.C.

Nell’incipit del III libro (proemio del secondo dialogo) del De finibus bonorum et malorum, che rilancia ancora una volta la polemica anti-epicurea, in questo contesto, riguardo al piacere e al tipo di vita απολαυστικός, è nominato Marco Giunio Bruto quale meritevole dedicatario.61 Dopo l’invocazione a Bruto e alla sua competenza filosofica, Cicerone presenta l’incontro in quel di Tuscolo con Marco Catone l’Uticense, nella villa di Lucullo. Al momento della composizione del Dialogo, Catone si è già sacrificato ad Utica ed è probabilmente a ragione di ciò che l’autore ne fornisce un ritratto particolarmente sentito ed edificante. Nella finzione del Dialogo, collocato nel 52 a.C., l’incontro avviene casualmente, favorito dai libri di filosofia stoica presenti nella biblioteca del piccolo Lucullo, rimasto orfano. Queste le parole che l’Arpinate spende per introdurre l’uomo politico, espressione del βίος σύνθετος, rivolgendosi a Bruto:

61 Al futuro cesaricida, al quale è attribuito un De virtute, Cicerone dedica altre opere come il Brutus, il De natura deorum, i libri Tusculanarum disputationum, ecc. Riguardo alla struttura del De finibus, cf. Karamanolis 2020, 151: «Presumably Cicero wants to focus exclusively on the ethical theories of his contemporaries, which, however, in a way integrate Platonic and Aristotelian ethics, as is the case with Antiochus. There is, however, another ethical position apart from those that Cicero discusses, namely his own. This is the position of the academic sceptic, who investigates the existing ethical theories and is not fully satisfied with any of them».

Come tu sai, aveva grande passione per la lettura e non ne era mai sazio; tanto che, senza preoccuparsi delle sciocche critiche della gente, soleva spesso leggere persino in senato in attesa che iniziasse la seduta, e così non pregiudicava la sua attività politica. Tanto più allora, in piena vacanza e fra un’enorme raccolta di libri, aveva l’aria di fare, per così dire, una scorpacciata di libri, se si deve usare questa parola per un’occupazione tanto illustre.62

62 Cic. fin. 3.2. Marinone 2016, 234‑5.

L’aviditas legendi, proprio in quel di Tuscolo (altrove così esecrato), non toglie nulla allo spessore politico del personaggio pubblico, dedito tanto allo Stato quanto alla fame di conoscenza attraverso i libri, che riempiono ogni interstizio di tempo in attesa del negotium. Pare dunque dirimente, in relazione al personaggio e alla data nella quale l’opera è pubblicata, la precisazione nihil operae rei publicae detrahens: Catone non si è di certo risparmiato nelle azioni, nella realtà, sacrificando la vita stessa per la difesa della repubblica.63 La trattazione della virtù secondo gli Stoici si profila attraverso lo scambio di battute tra Cicerone e lo stesso Catone:

63 Sulla constantia sine ingenio di Catone l’Uticense cf. Manenti 2007, 466. Rifacendosi al contenuto di una lettera ad Attico del 60 a.C., la studiosa chiarisce: «il termine constantia ricorre in riferimento a Catone, insieme ad integritas, ed è significativamente contrapposto a consilium ed ingenium […]. Si tratta insomma di una constantia inflessibile, la stessa che sosterrà Catone nel suo gesto estremo, nella sua gloriosa uscita di scena, ma che difficilmente avrebbe potuto incontrare il plauso del nostro avveduto Cicerone».

Cicerone Son venuto a prendere alcuni resoconti di lezioni di Aristotele che sapevo di poter trovare qui, per leggerli mentre ho del tempo libero: cosa che a noi non accade spesso.

Catone Come vorrei che tu avessi avuto propensione per gli Stoici! Proprio a te, più che a chiunque altro, sarebbe stato appropriato annoverare fra i beni nulla all’infuori della virtù.

Cicerone Considera se non sarebbe stato più appropriato a te, dato che in sostanza hai le mie stesse idee, non dare nuove determinazioni ai concetti. Difatti il nostro modo di pensare collima: è il modo di esporlo che contrasta.64

64 Cic. fin. 3.3. Marinone 2016, 236‑7.

Il ritratto non fa che confermare la vicinanza di Cicerone, soprattutto a partire dal 45 a.C., ai temi e alla condotta degli Stoici, che, come anche altrove affermato, a suo avviso avrebbero dato solo nomi diversi agli stessi concetti degli accademici.65 Concludendo, è come se Cicerone rappresenti, attraverso Catone l’Uticense, una evoluzione-attenuazione della netta presa di posizione assunta nel De republica per mezzo di Catone il Maggiore: la virtù, in sostanza, si profila con il secondo Catone ancora tale, ma con un’inedita connotazione, frutto della sintesi tra otium e negotium.

65 Cf. Cic. Ac. 1.37 e 1.43. Di Rienzo 2022, 88‑9; 94‑5: «E come [Zenone] aveva cambiato non tanto in base a una questione sostanziale quanto terminologica […]»; «sono incline a ritenere, come piaceva credere anche al nostro Antioco, che gli Stoici rappresentino una riforma della Vecchia Accademia, piuttosto che un nuovo sistema filosofico». Cf. Reinhardt 2023a, 212; 247: «Making the familiar Antiochian point that Zeno merely changed the terminology in certain areas of Old Academic doctrine, which in context means either that the diminished status which the Old Academy accords to goods other than virtue is reflected in the Stoic category of ‘indifferents’ or that the Stoic accepted within their category of ‘things in accordance with nature’ the same graduations which the Old Academy posited for bona other than virtue»; «The reader may thus take the description of Varro’s speech (‘certainly short and not obscure at all’) and of the relationship between the views of the Academy prior to Arcesilaus and, or so seems to be an implication, of the Peripatos and the Stoic system (‘a correction rather than a new body of doctrine’) with a pinch of salt». Per una disamina generale sulla virtù nel De finibus e sulla posizione sui generis di Cicerone, cf. Karamanolis 2020, 161‑2: «Cicero finds different faults in these positions; the Stoic theory appears unattractive as it does not do fully justice to the bodily side of human nature, but at least it allows happiness to be within the control of the wise; the Peripatetic and the Antiochean prima facie look more plausible and intuitively attractive as they take into account the bodily and social side of humans, but they ultimately fail insofar they make happiness a matter of chance, which leaves one wonder about the role that philosophy has in leading us to happiness. The Antiochean theory in particular is inconsistent to the extent that it allows happiness to be affected but not to be eliminated by misfortunes».

4.1 Oti oblectatio honestissima

Nell’incipit delle Tusculanae disputationes, Cicerone si presenta nuovamente dedito agli studi, grazie allo sprone di Marco Giunio Bruto, giustificando (come anche in altri dialoghi) la scelta della trattazione filosofica in lingua latina, dettata dall’obiettivo di essere utile ai propri concittadini:

Libero alfine, se non del tutto, certamente in gran parte, dalle mie fatiche di avvocato e dai doveri di senatore, son ritornato, o Bruto, soprattutto per le tue esortazioni, a quegli studi che, sempre vivi nel mio cuore, ma sacrificati alle circostanze, ho ripreso dopo lunga interruzione.66

66 Cic. Tusc. 1.1. Marinone 2016, 456‑7. Cf. Kennedy 2010, 19, s.vv. «liberatus», «Brute». Diversamente da Nutting e da Gildenhard che interpretano ‘liberatus’ come «bitterly ironic», Kennedy confida nella serietà dell’affermazione. Ricordando altre opere ciceroniane dedicate a Bruto, lo studioso ritiene che in Tusc. traspaiano un atteggiamento meno amichevole e minor preoccupazione per il futuro cesaricida.

Poi, poco dopo precisa:

La filosofia rimase trascurata fino ad ora, né mai brillò nella letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e se nella mia attività politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per quanto è possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata. […] Un tempo invero tenevo declamazioni su argomenti giudiziari, e nessuno praticò tale esercizio più a lungo di me; ora questa è la declamazione della mia vecchiaia.67

67 Cic. Tusc. 1.3‑4. Marinone 2016, 460‑1; 462‑3.

L’esigenza di contribuire alla crescita culturale dei cittadini romani per mezzo della traduzione e della divulgazione degli originali greci si ravvisa anche nel proemio dialogato del Varro, nel quale la maschera di Varrone, dopo una certa reticenza, si presta all’esposizione secondo le richieste del conduttore.68 Quest’ultimo, dopo aver intessuto (almeno in superficie) le lodi del Reatino, soffermandosi sul travaglio della propria esperienza personale e politica, spiega il perché egli cerchi rifugio nella filosofia (doloris medicinam a philosophia peto):

68 Cic. Ac. 1.2.

Dal canto mio – dirò le cose come stanno – finché l’aspirazione agli onori, le cariche, i processi, finché non solo la sollecitudine per lo Stato, ma in qualche misura anche la sua gestione mi tenevano saldamente imbrigliato in innumerevoli incombenze, coltivavo questi studi in privato, e per non lasciarli invecchiare, appena possibile li rinvigorivo con la lettura. Ora però, ferito da una profonda piaga del destino e liberato dall’amministrazione dello Stato, cerco nella filosofia una medicina per il dolore e reputo assai decoroso questo godimento offerto dal tempo libero. Questa occupazione si adatta infatti molto bene alla mia età, è del tutto coerente con quegli incarichi, se alcuni ne abbiamo portati a termine in modo da guadagnarne lode, è la più utile anche per l’edificazione dei nostri concittadini; e se così non è, non vedo comunque cos’altro potrei fare.69

69 Cic. Ac. 1.11. Di Rienzo 2022, 68‑9. Cf. Reinhardt 2023a, 107‑8: «Cicero turns to his own reasons for writing philosophy. The emphasis is here on personal reasons, which need not mean that personal reasons were overriding for Cicero at the time of writing. Rather, the focus on the personal means that there is less of a suggestion that one ought to write philosophy, or that it is an omission if one does not although one could. While he was occupied with his legal and political career, all he could do was keep au fait with philosophy and refresh his knowledge of the arguments from time to time. Now that he his shattered by personal misfortune (the death of his daughter Tullia) and sidelined as a politician (because Caesar is dictator) he uses philosophy as a cure for his pain and as the most honourable was to spend his otium».

Non può essere sottovalutato il coraggio della confessione oti oblectationem hanc honestissimam iudico, che rimanda alla franchezza di simili esternazioni rivolte nelle epistole ad Attico e a Varrone.70 Tale ammissione di godimento nel dolore privato e pubblico, contemplando da una parte la difesa dell’attività precedentemente devoluta a favore dello Stato, fa conseguire che la trattazione della filosofia in lingua latina sia l’occupazione più adatta in età avanzata.71 Va inoltre notata la precisazione hoc in primis consentaneum: in aderenza agli incarichi ricoperti, l’opera del traduttore-divulgatore della sapienza greca diviene dunque per Cicerone, nell’estate del 45 a.C., l’attività più utile da destinare ai propri concittadini. Dalle ceneri della storia repubblicana e individuale, la virtù ciceroniana continua nella vita contemplativa, non fine a sé stessa né rivolta interamente a se ipsum, ma comprendente comunque un prodesse per la comunità. Va inteso in questa direzione l’explicit di Tusc. 5.121:

70 Cf. Grilli 2002, 198‑9: «Cicerone è la figura caratteristica della nuova età che vive ancora rivolta agli antichi ideali e a una contemplatività della vita arriva a rassegnarsi solo per costrizione: esempi ne sono anche, ma meno insigni, Varrone, Marcello e Servio Sulpicio».

71 Sulla liceità in Cicerone di dedicarsi all’otium solo in vecchiaia, cf. Grilli 2002, 202: «Con una continuità di pensiero, per cui è inutile soffermarci alle situazioni intermedie, Cicerone arriva ad ammettere il βίος θεωρητικóς soltanto per la vecchiaia, quando l’uomo ha già dato tutto il frutto della sua attività, quando l’otium a buon diritto può essere anteposto al negotium».

Io faccio conto di metterle anche per iscritto [scil. le discussioni] (come potrei impiegar meglio ora il mio tempo libero, qualunque esso sia?), e dedicherò questi altri cinque libri al mio Bruto, che non solo mi ha spinto ma anche sfidato a scrivere di filosofia. Non è facile dire quanto giovamento io possa recare agli altri con questa attività; certo, per i miei acerbi dolori, per i dispiaceri di vario genere che da ogni parte mi circondano non si sarebbe potuto trovare alcun altro conforto.72

72 Cic. Tusc. 5.121. Marinone 2016, 862‑3. Riguardo a Tusc. 5, cf. Karamanolis 2020, 164: «In Tusc. 5.73‑81, in particular, Cicero argues that the wise man should not fear pain at all and he points to virtues that can function as remedies for pain. Cicero clearly takes now the view that the wise man needs nothing other than virtue in order to attain happiness. While in De finibus he argued that the Stoics favoured the same external goods as the Peripatetics, albeit in terminological disguise, he now argues (5.47) that the Stoics are correct to regard these things as indifferent, that is, as things that do not contribute to happiness».

Constata la definitiva levatio, con cui l’opera trova compimento formale e ideale, si può quindi, almeno in parte, convenire con la conclusione di Hanchey:

Otium does not serve as an escape from political realities, but as a transcendence of them. It is a transtemporal space wherein the republic exists and outlives the particular threats of particular eras.73

73 Hanchey 2013, 174.

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